
Il sapore di una festa che può continuare ad avere significato solo nel piacere di ritrovare nell’altro e nell’altra un pezzo di mondo di cui, forse, non si sapeva nemmeno di avere bisogno e persino nostalgia
Non c’è un altro periodo dell’anno in grado di richiamare così fortemente questo concetto, che è un bisogno e può essere, nel migliore dei casi, un desiderio. Ma che facilmente può trasformarsi, anche inconsciamente, in un dovere legato a circostanze e tradizioni.
Del resto, “condividere” è una parola complessa, che può essere capita solo a partire dal “dividere” in essa contenuto, da quel di- che dice “divisione” e dal videre in cui brilla il “sapere”, l’“apprendere”, il “conoscere”. Ne è esempio l’analisi, una divisione, una separazione di cose volta alla loro comprensione, un lavoro per dettagli che mira a una conoscenza globale.
La con-divisione si pregia della compagnia, è un separare insieme per un capire condiviso. E non esiste cosa più difficile, se non altro per l’estraneità, almeno concettuale, dei gesti implicati. Come possono coesistere unione e divisione? E come si conciliano le diversità in una comprensione univoca? Per non parlare della lentezza di un simile processo, in cui convergono caratteri, mancanze, ferite, modi di fare, esigenze a volte inconciliabili. Per non parlare dell’insostituibilità del contributo di ciascuno. Si, per con-di-videre occorre che tutti facciano qualcosa. Nessuno può creare condivisione per gli altri, pena uno sforzo immane, produttivo semmai di una più o meno buona aggregazione.
È pericoloso condividere: si rischia di conoscere aspetti caratteriali altrui che forse era meglio ignorare, di ascoltare parole che forse era meglio non sentire. Soprattutto, si rischia di perdere: quanta tranquillità, quanta semplicità, quanta libertà di essere se stessi vanno perse in certe condivisioni malriuscite, anche durante le festività natalizie. Del resto, un’altra etimologia di dividere vede coinvolto il termine viduo, cioè “privare”.
Siccome, però, le parole sono preziose, accanto alla privazione, vi è anche l’idea di “essere mancanti”: la condivisione autentica nasce dalla consapevolezza, anche solo da un sentire inespresso, di non essere bastevoli a sé stessi. Non perché incompleti, ovviamente. Non si coltivano relazioni, né si condividono pranzi e cene per colmare vuoti. Ed è uno sforzo che va fatto, nonostante le feste abbiano il potere di amplificare la solitudine al punto da ispirare unioni forzate pur di non stare “soli”. Eppure questo non funziona mai. Occorre sperimentare il paradosso del “sono completo, completa, ma non mi basto”, “sto bene, ma ho voglia di altro e di altri”. Così la condivisione diventa figlia dell’eccedenza, un lusso per pochi, un di più cui scegliere di fare spazio, un’apertura nell’apertura. E non pesa stringersi per aggiungere un posto a tavola, non secca adeguare gusti e orari, non ci si sente privati di nulla, ma si scopre che di quelle cose, di quei momenti, di quei volti si aveva mancanza, anche inconsapevole.
Ed è gioia autentica, quella dell’unione che non è sintesi, ma arricchimento. Quella di una festa che rischia sempre di disperdersi nel dovere per il dovere, ma che può continuare ad avere significato solo nel piacere di stare insieme, per ritrovare nell’altro e nell’altra un pezzo di mondo di cui, forse, non si sapeva nemmeno di avere bisogno e persino nostalgia.
Buone feste a tutte e a tutti!