«Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei»

(Purgatorio III, vv.121-123)

Un lungo discorso di Virgilio, l’incontro con i contumaci, l’incontro con Manfredi di Svevia: sono queste le tre sezioni del canto terzo del Purgatorio, un canto che inneggia ad una misericordia imprevedibile, gratuita e senza fine

Virgilio, che già abbiamo visto impacciato nel canto precedente e che qui sarà incerto sulla ascesa da prendere (tanto che inviterà Dante a chiedere lui stesso indicazioni alle anime che scorgono da lontano…), si produce in una lunga riflessione sui limiti della ragione umana, cioè suoi (!), e sulla imperscrutabilità della giustizia divina: un ragionamento che, francamente, potrebbe dispiacere non poco, ma che va letto come anticipazione di quanto tra poco apprenderemo da Manfredi.

Questi è appunto nella schiera dei contumaci ovvero di coloro i quali, pur morti scomunicati, si sono pentiti in articulo mortis, in punta di morte, e attendono sulla spiaggia dell’antipurgatorio – per un tempo trenta volte superiore a quello che hanno vissuto da scomunicati – prima di poter accedere alle diverse cornici in cui la montagna del purgatorio è suddivisa. Peraltro, queste anime, ribelli alla Chiesa e spesso dallo spirito protervo e autarchico, sono ora presentate come pecorelle mansuete che, uscite una dietro l’altra dal recinto, non sanno bene dove andare… insomma: un’altra sottolineatura dei limiti della natura umana, ma anche della imponderabilità del cammino di ogni uomo.

Finalmente parla Manfredi. Lui, dipinto dalla propaganda guelfa come l’Anticristo in persona, il figlio illegittimo di Federico II di Svevia, a sua volta scomunicato; Manfredi, morto cruentemente nella battaglia di Benevento, fatto disseppellire, per ordine di papa Clemente IV, dal vescovo di Cosenza e rimasto con le spoglie esposte al vento e alla pioggia lungo il fiume Liri. In altri termini, un nemico giurato della Chiesa da questa ricambiato con aperto livore e totale assenza di misericordia…

Ed è proprio Manfredi che può cantare:

«Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei»

(Purgatorio III, vv.121-123).

Tradotto liberamente: dove non arriva l’uomo, dove non arriva la sua ragione, dove non arriva neppure la Chiesa, che pure dovrebbe essere gratuito strumento di grazia, arriva la bontà divina ed anche i peccati più «orribili» sono assunti da braccia senza fine che accolgono e stringono qualsiasi “figlio prodigo”, purché dica: “Papà!”.

Può piacere o non piacere, me ne rendo conto, ma è questo il Vangelo della misericordia. Quanto a Dante, egli mette subito le cose in chiaro e dice da che parte sta, con uno dei polisindeti più famosi di tutta la Divina Commedia: «biondo era e bello e di gentile aspetto» (v.107). Manfredi è biondo come un angelo e bello come la grazia e gentile come chi ha il cuore nobile. Altro che Anticristo!

Non è, dunque, contro Manfredi che Dante intende inveire, ma ancora una volta contro quella Chiesa di uomini corrotti che pretendono di legare laddove Dio scioglie e di vendere e speculare laddove la misericordia si offre senza prezzo. Non a caso Manfredi non chiede a Dante che si lucrino indulgenze per abbreviare il tempo della propria purificazione, ma piuttosto di informare del proprio stato la figlia Costanza «ché qui per quei di là molto s’avanza» (v.145): sono le preghiere dei congiunti rimasti in vita ad abbreviare il tempo della purificazione e non già uno sconto di pena tanto più grande quanto più larga è la borsa di chi l’acquista.

Thomas Adams: «Chi esige misericordia e non ne mostra alcuna, abbatte il ponte sul quale egli stesso deve passare».

Agostino d’Ippona: «Tra l’ultimo nostro respiro e l’inferno, c’è tutto l’oceano della misericordia di Dio».

Madeleine Delbrêl: «Tenero è il cuore capace di misericordia per tutti gli uomini, compresi noi stessi».


FonteDesigned by Eich
Articolo precedenteA don Gianni, vescovo
Articolo successivoRicordando Sara
La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...