«Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!»
(Inferno, VIII, vv.49-51)
È l’orgoglio il protagonista dell’ottavo canto, un orgoglio che accende e acceca. La narrazione è suddivisa in tre sezioni e altrettanti incontri, rispettivamente: l’incontro col demone Flegiàs, quello con Filippo Argenti, quello con la schiera dei diavoli che intendono vietare a Dante e Virgilio l’ingresso nella città infernale di Dite.
Siamo ancora nel quinto cerchio e i due viaggiatori sono sulla riva della palude Stigia. Per attraversarla, avranno di nuovo bisogno di un traghettatore, che questa volta prende il volto e le sembianze di Flegiàs, figura mitologica, artefice dell’incendio del tempo di Apollo a Delfi, dopo che il dio ne aveva sedotto la figlia (e direi: ben gli sta ad Apollo!). L’etimologia del suo nome richiama il greco Flegèton, che significa “ardente” (!): proprio come le parole di fuoco che rivolge a Dante, credendolo un dannato.
A tenere a bada Flegiàs ci pensa ancora una volta il buon Virgilio, che però non fa in tempo a metterlo a tacere che già deve intervenire di nuovo in difesa del suo protetto. Siamo ora nella parte centrale del canto e Dante riconosce l’Argenti, un fiorentino, guelfo di parte Nera, suo nemico personale, col quale ingaggia un acceso duello verbale.
Dante è a sua volta accecato di rabbia ed esprime il desiderio di veder sprofondare il suo concittadino nella melma della palude Stigia, auspicio tutt’altro che cortese in uomo che pure sta compiendo un viaggio purificatore, ma viva la sincerità: Dante non fa mistero dei suoi peccati e non nasconde i suoi stessi limiti!
Fa la stessa cosa anche con Virgilio. Infatti, giunti sotto le mura infuocate della città di Dite, quando i diavoli ostacolano loro il passo, Virgilio proverà ad affrontarli contando sulle sue sole forze. Risultato: Dante, vistosi abbandonato, è colto dal terrore, i diavoli respingono Virgilio e lui, allegoria della ragione, dovrà tornare sui propri passi a mani vuote, con «li occhi a la terra» e privi «d’ogne baldanza» (vv.118-119). Dalle mia parti si dice: “cornuto e mazziato”…
Morale: l’orgoglio non paga e chi lo segue resta abbacinato.
Lo scrive dell’Alberti, Dante, ma sembra pensarlo di se stesso e per ognuno di noi:
«Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furiosa»
(Inferno, VIII, vv.46-48).
In altri termini: chi vive con occhi di orgoglio, non lascia il ricordo di azioni buone e vive con il cuore reso cieco dalla furia che lo divora.
E Dante incalza:
«Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!»
(Inferno, VIII, vv.49-51).
Parafrasi libera: coloro che si reputano dei grandi re, sono destinati a rotolarsi come porci nel fango e il disprezzo sarà l’unica traccia che lasceranno di sé.
Caro lettore, adorata lettrice,
ti confesso che a questo punto sono davvero in imbarazzo. Da quanto sin qui esposto, dovrei concludere che l’umiltà è la via da seguire, ma se Dante e Virgilio hanno peccato di tracotanza, chi sono io per sentirmi migliore di loro?
Ti lascio allora con le parole di autore ben più autorevole di me. Umberto Saba: «Io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà»…