Il pm Nino Di Matteo ospite dell’Università di Lecce: perché non basta mai parlare di mafia
“L’indifferenza ha ucciso più della mafia”: una frase breve e lapidaria pronunciata dal Dott. Nino Di Matteo, pubblico ministero, che, insieme ad altri valorosi magistrati, è impegnato nel processo sulla trattativa Stato Mafia: un processo che, su certa Stampa e per certe Istituzioni, appare molto osteggiato.
Il 22 Febbraio 2016, la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Lecce, grazie all’entusiasmo e alla passione genuina di Anita Rossetti e di altri uomini e donne del Salento, ha aperto le sue porte dell’Aula Magna ad un cittadino e magistrato che ha fatto una scelta di campo netta e coerente rispetto ad un giuramento compiuto oramai più di venti anni fa.
Il cittadino Antonino Di Matteo, nato a Palermo il 26 Aprile 1961, ha indossato per la prima volta la toga nella camera ardente allestita, nel palazzo dei veleni del Tribunale di Palermo, in occasione delle stragi di Capaci e Via D’Amelio dove furono brutalmente strappate le vite del Giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino e dei valorosi agenti delle rispettive scorte.
In quel 1992, dove la violenza mafiosa sostenuta e guidata da pezzi deviati e spregiudicati dello Stato, un’intera generazione di cittadini–magistrati compì una promessa, destinata a restare eterna, dinnanzi a quei corpi martoriati e ricomposti in preziose casse di ciliegio: quel sacrificio di quei valorosi uomini non sarebbe rimasto vano.
Idealmente, nel 1992 nacquero le indagini sulla trattativa Stato–Mafia: la naturale evoluzione del celebre maxiprocesso contro Cosa Nostra. “Evoluzione” perché per la prima volta sul banco degli imputati i mafiosi sono stati affiancati da eleganti colletti bianchi.
La “testardaggine” di Nino Di Matteo nel voler illuminare quelle stanze segrete, dove furono stipulati accordi indicibili sulla pelle di valorosi uomini dello Stato, gli è costata, da un lato, una serie di minacce di morte da parte del boss di cartone Totò Riina e, dall’altro, un infame isolamento proveniente da quello stesso Stato che invece avrebbe dovuto manifestargli pieno ed incondizionato sostegno.
Sorgono spontanee alcune domande. Ad esempio, perché il boss analfabeta che ha messo sotto scacco un intero Paese ha sentito l’esigenza, nonostante i numerosi ergastoli da scontare, di minacciare un magistrato impegnato in un processo che, qualora dovesse giungere al suo naturale epilogo, irrogherebbe, allo stesso boss di cartone, una condanna che non cambierebbe nulla rispetto alla sua situazione giudiziaria? O ancora, perché giornali e salotti televisivi non riservano alla trattativa Stato-Mafia la stessa attenzione che invece riconoscono ad altri casi di cronaca – si pensi a Cogne, Avetrana, Garlasco solo per citarne alcuni?
In questo processo ci sono molti protagonisti – oltre ai magistrati competenti – che cercano di contribuire a scoperchiare quelle pentole che, sin dai tempi del Giudice Istruttore Rocco Chinnici, non andavano scoperchiate perché così facendo sarebbe stata intaccata, e lo sarebbe ancora, certa economia palermitana e italiana.
Tra i vari protagonisti di questa importante storia processuale vanno annoverati almeno altri due nomi illustri: Saverio Masi, maresciallo dei carabinieri e caposcorta del Dott. Di Matteo, diventato scomodo per aver denunciato i vertici dell’Arma che gli avevano impedito di arrestare importanti boss latitanti; Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Don Vito Ciancimino, considerato un mitomane per aver osato rendere pubbliche le diverse collusioni intercorrenti tra mafiosi, massoni e “rispettabili” uomini delle Istituzioni.
Ecco perché incontri come quello dello scorso 22 Febbraio presso l’Università di Lecce sono davvero importanti per avviare o tornare ad alimentare una rivoluzione culturale che è il vero spauracchio per i diversi collusi e mafiosi tra loro alleati, sia che portino ancora la coppola sia che si nascondano sotto candidi colletti bianchi.