I buchi dell’esistenza non bisogna solo contemplarli, ma pure trasformarli

L’altro giorno, la persona più straordinaria che conosco mi ha detto una delle sue frasi lapidarie e molto più che semplicemente concrete: “sono stanco di parlare con le ferite delle persone”. Lì per lì sono rimasta di stucco, come sempre. Io parlo e scrivo tanto. Lui con una decina di parole in croce ha descritto, anzi ha dipinto qualcosa sui cui riflettiamo insieme da tempo, qualcosa di serio e di urgente, capace di compromettere le relazioni quotidiane.

Certo, tutti ci portiamo addosso ferite di ogni tipo e il nostro rapporto con esse influenza profondamente il nostro modo di rapportarci agli altri. Se le ignoriamo, ignoriamo quelle degli altri. Se le accettiamo, accettiamo quelle degli altri. Se le accogliamo e le trasformiamo, accogliamo e trasformiamo quelle degli altri. E se, poi, le combattiamo, combattiamo quelle degli altri e combattiamo gli altri stessi. Diamo voce solo a quella ferita aperta, purulenta e pulsante. Ed essa parla al posto nostro, riversando tutto il marcio che ha dentro. Un’emorragia di parole, sentimenti, pensieri poco controllabile e molto pericolosa.

È un rischio cui siamo tutti sottoposti. Occorre seriamente prenderne consapevolezza prima che sia troppo tardi, prima che quella ferita non sia più soltanto bocca, ma sia pure occhio che vede il mondo, ma non lo guarda, orecchio che sente e non ascolta, mano che tocca e non palpa, naso che annusa e non odora. Insomma, prima che prenda totalmente il dominio su di noi e renda impossibile il dialogo, la critica, la sana discussione, pure il litigio, tutto fertilizzante dei rapporti autentici, reali, incarnati.

Qualcuno, con affascinante gioco di parole, ha detto che ogni ferita può essere una feritoia, una finestra sull’esterno, un punto di contemplazione, una miniera di stupore, una fessura da cui far entrare la luce. Meraviglioso. Eppure, secondo me si può e si deve fare un passo ulteriore, per evitare di passare a un altro estremo, quello di chi si perde nelle nuvole, aleggia sui problemi, dimentica, spiritualizza troppo, fugge, tappa e incerotta la ferita con le più dolci consolazioni.

Occorre, invece, reinventarla. In altre parole, i buchi dell’esistenza non bisogna solo contemplarli, ma pure trasformarli. Ci ho pensato l’altro giorno montando un mobile Ikea: non riuscivo a credere alla quantità di buchi presenti sulla superficie. Buchi vitali, per la vita e per le viti. E avvita lì, avvita là, il mobile ha preso vita.

Così le ferite possono avere un senso, se siamo capaci di trattarle come fori da costruzione. E ferire e forare nella lingua italiana hanno la stessa radice. Ci vuole inventiva. Ci vuole pazienza. Ci vuole tempo. E di certo nello scatolone della quotidianità non ci sono le preziose istruzioni Ikea ad illustrare tutti i passaggi. Però si può provare. Perlomeno, in questo modo si evita di fare il contrario: distruggere e smontare. E quando a parlare sono le ferite, purtroppo questo è assicurato.

A proposito: la persona in questione è la più straordinaria che conosco perché della sua grande, grave ferita ha fatto un foro per costruire ciò che è. Un uomo gentile, premuroso, riflessivo, calmo, pacificato. E se vi raccontasse la sua storia, credo rimarreste sbigottiti. Ma poi vi convincereste pure voi che il passaggio da ferita a foro è assolutamente possibile. E resta un miracolo di ordinaria portata.


2 COMMENTI

  1. Cara Michela….. Hai il potere di farci riflettere sempre….. Mi sono sentita dentro le tue parole, chiamata in causa e sollecitata..Grazie!

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