
Se l’anno civile comincia il 1° gennaio e l’anno scolastico in settembre, la liturgia fa iniziare il proprio anno con la prima domenica di Avvento, quale preparazione al Natale.
In realtà questo periodo è nato molto tardivamente: verso l’anno 600 d.C. i cristiani ritennero che la festa del Natale dovesse essere preceduta da un tempo di preparazione; nacquero così le domeniche di Avvento. La Festa del Natale, a sua volta, entrò nel calendario cristiano intorno al 354 d.C. e fu fissata al 25 dicembre. Ovviamente non fu ritrovato alcun documento all’anagrafe di Nazareth o Betlemme – non conosciamo né il giorno né l’anno esatto in cui Gesù è nato – la scelta deriva dal fatto che in tale data veniva celebrata a Roma la festa del solstizio d’inverno.
Nei primi secoli la Chiesa era solita reinterpretare, più che reprimere, i riti e le cerimonie pagane. Fu così che i cristiani, invece di bandire crociate contro le licenziosità dei Saturnali, cambiarono nome e significato alla festa del sole invitto.
Andando oltre la platealità e la stravaganza di certe iniziative pro o contro il presepe per evitare di turbare chi neanche si pone il problema, l’Avvento e il Natale costituiscono un tempo opportuno ricco di celebrazioni: le parole, i gesti, i riti e le tradizioni suscitano certamente stati d’animo intensi a cui non ci si può sottrarre.
L’Avvento, come preparazione al Natale, è l’occasione propizia per tornare a ripensare, con l’animo disposto a capire, a mettere in dubbio le proprie sicurezze, a ridiscutere il proprio modo e le proprie forme di esprimere la fede: la sfida è di essere contemporanei al proprio tempo; passato e futuro sono così strettamente uniti nella preoccupazione di accogliere nuove responsabilità e di accettare nuove sfide. Il futuro ha un cuore antico, diceva Carlo Levi. Senza memoria non c’è identità. Occorre dunque rielaborare nuove forme e nuovi simboli che traducano le esigenze spirituali dell’oggi, che propongano cammini di liberazione, facendosi carico delle lacerazioni e delle contraddizioni della contemporaneità.
Il tempo dell’Avvento diventa così un tempo monastico: i monaci sono dei guardiani del tempo, uomini dell’attesa e del desiderio, non del possesso o della soddisfazione.
Un antico racconto narra che un tale, dopo aver frequentato per un certo tempo una Chiesa, domandò a un presbitero: «Che cos’è in verità la comunità cristiana?» E quel sapiente presbitero rispose: «È un luogo nel quale si cade e ci si rialza, e poi di nuovo si cade e di nuovo ci si rialza, e ancora si cade e ci si rialza». E il suo interlocutore gli chiese: «Fino a quando?» Gli fu risposto: «Fino a che venga il Signore, e noi trovandoci caduti a terra ma in procinto di rialzarci, ci prenderà per mano e ci rialzerà lui definitivamente per portarci con sé».
L’Avvento, scrive Lisa Cremaschi della comunità di Bose, è il tempo per destarsi dal sonno, vegliare, ricominciare. Sappiamo che cadremo di nuovo, ma con gli occhi rivolti al cielo, ogni volta cercheremo di rialzarci confidando nel suo perdono, nell’attesa fiduciosa del suo ritorno.
È questo il linguaggio della speranza che scruta con gli occhi di una fede vacillante, quando non è spenta, cercando negli orizzonti della propria vita un volto albeggiante e rincuorante.