Il dono agapico di una cella
Ci sono luoghi e momenti nella vita di un uomo che possono aprire degli orizzonti che vanno ben al di là della loro stessa esistenza e che solo nel corso del tempo vengono ad assumere una particolare valenza col consegnarci dei non comuni squarci sul nostro presente; e ciò è stato reso possibile da determinate scelte fatte in modo deliberato nel tentativo di far fronte a situazioni ritenute incompatibili con l’essere umano col pagarne le conseguenze sino al sacrificio della propria vita. Sono significative in tal senso alcune esperienze di vita, come quelle del matematico-filosofo della Magna Grecia Zenone e di Antonio Gramsci che, pur lontane tra di loro nel tempo, offrono del materiale su cui riflettere per meglio capirci nei momenti cruciali della vita che sono quelli che poi lasciano il segno.
Anche se il tutto non è suffragato da precise prove storiche, a Zenone prima di essere messo a morte per aver partecipato ad una congiura, fu chiesto da parte del tiranno di Siracusa Girone I ‘a cosa gli fossero servite la matematica e la filosofia’; e la risposta fu ‘a disprezzare i tiranni’, risposta ripresa e tradotta non a caso dal matematico ed epistemologo Federigo Enriques negli anni ’30 del secolo scorso ‘a riconoscere i tiranni’. E di tale eredità di non poco conto siamo debitori per renderla operativa, anzi si dovrebbe renderla sempre più nostra in quanto siamo ancora circondati da ‘tiranni’ di varia natura che vanno individuati; essi non sono solo quelli in carne ed ossa che hanno ancora in mano parti considerevoli del mondo, ma anche coloro che di nascosto svuotano le conoscenze del loro valore storico-veritativo riducendole ad una massa di informazioni spesso in contraddizione tra di loro e facilmente manipolabili. Certo, oggi abbiamo a disposizione in ogni momento una enorme quantità di dati grazie agli strumenti tecnologici sempre più sofisticati; ma essi richiedono da parte di tutti un maggiore sforzo concettuale teso al pensiero critico per essere adeguatamente governati, come viene da più parti auspicato, che ha le sue logiche nel formarsi distanti dallo spirito del nostro tempo, tutto basato sulla velocità e su l’hinc et nunc. E si rende, pertanto, sempre più necessario uno sforzo teso a costruire le basi di una ‘nuova Paideia’, nel senso avanzato da Mauro Ceruti, che deve mirare non solo a far fronte alla quantità di informazioni pur necessarie, ma a tradurle criticamente in progetti di vita, in ‘cultura’ che possa rigenerare i nostri stili di pensiero e di azione per il XXI secolo; non a caso da varie parti esso è considerato ‘secolo di riflessione’ più che mai rispetto al passato per il pieno portato di inedite sfide a partire da quelle poste dall’età del technium’, come la chiama Kevin Kelly, età che dominata quasi esclusivamente dal verbo ‘potere’ ha dimenticato di coniugarlo col verbo ‘dovere’.
E si deve essere grati ad Antonio Gramsci quando da una cella di Turi ci ha avvertiti, come viene riportato in un passo dei Quaderni del Carcere, che “la cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore”, punto di partenza per prendere coscienza dei problemi che ci circondano senza esserne vittime ed oggetti di strumentalizzazione sempre in agguato; e se questo non facile processo di metabolizzazione degli eventi in cui siamo immersi viene condiviso e portato avanti insieme ad altri, può tramutarsi in una “conquista di coscienza superiore, per il quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri”. Ed in tal modo si costruiscono gli strumenti più adeguati tesi a prendere coscienza del fatto che ‘il corso della storia futura dipende dalle decisioni della nostra generazione’, se facciamo nostre anche in modo strategico delle preziose indicazioni avanzate prima da Alfred N. Whitehead e ultimamente da Michel Serres, concernenti soprattutto i rapporti tra natura ed umanità.
E ancora quella cella col tutto suo carico di tensioni, cognitive ed esistenziali, ci fornisce ulteriori elementi, ma sempre frutto di quel sano e vitale realismo che ha contraddistinto il percorso di Gramsci, ‘realismo’ che come tale è sempre, a dirla con Karl Popper del Proscritto alla Logica della scoperta scientifica, ‘connesso con il razionalismo, con la realtà della mente umana, della creatività umana e della sofferenza umana’; e se una idea trova le sue ragioni costitutive in un plafond simile, non può essere messa da parte o considerata come un semplice grido di disperazione sempre comunque da ascoltare, ma va abbracciata come un dono razionale e sviscerata in tutte le sue implicite potenzialità, anche se è il risultato del momento tragico di una esistenza per aver preso piede in un particolar luogo in seguito a determinate scelte. Ancora oggi possiamo farla nostra nel prendere atto che “cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo i nostri rapporti con gli altri uomini”; così una cella che, come tale con i suoi lamenti e rumori, è uno stare fuori dal mondo e isolati dal contesto umano, si è trasformata in un unicum di pensiero e di vita, è stata resa kantianamente un ‘luogo dell’intelletto’ per entrare più responsabilmente nelle rugosità del reale e delle sue contraddizioni col mettere in piedi un piano razionale per concepirne una possibile alternativa. Esse sono state ‘abitate’, per usare un’espressione di Simone Weil, in compagnia della sofferenza e della connessa ‘creatività della mente’ che, abbinate insieme, ci hanno offerto un quadro, non certamente idilliaco del mondo ma restituito pieno di significativi ‘eventi di verità’, proprio nel senso avanzato da Alain Badiou, da decifrare e farne tesoro da parte per le generazioni successive.
I Quaderni del Carcere, pertanto, se attraversati con tale approccio, conservano questa capacità, si potrebbe dire, di essere per il mondo, in quanto non si limitano ad essere un grido di denuncia e di lotta nei confronti di una dura realtà, ma un modo per darle un maggiore senso e assumerla come punto di partenza per ulteriori orizzonti in difesa dell’umano; e, infatti, non è impresa facile inserirli in un particolare genere letterario-filosofico e rimangono un unicum in quei percorsi che hanno descritto il variegato mondo della situazione carceraria come testimonianza non solo di una fede politica ma di una condizione umana più in generale. Del resto, per le tragiche vicende che lo hanno caratterizzato, il primo Novecento ci ha dato altri esempi del genere; e con Ai miei figli di Pavel Florenskij e Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer (Etty Hillesum e Pavel Florenskij: il dono del loro essere ‘cuori pensanti’ dell’oggi, 26 gennaio 2023 e Il ‘caso limite’: Dietrich Bonhoeffer, 20 luglio 2023), i Quaderni del Carcere dovrebbero far parte del nostro ‘piccolo Panteon portatile’, ancora per usare una idea di Badiou, per essere da guida nel mettere in atto nuove modalità di vigilanza e resistenza da una parte, come nel caso di Zenone, contro le varie forme di potere che come tali raffinano continuamente gli strumenti in uso per legittimarsi, e dall’altra di esperire il mondo umano, di ripensarlo.
In tal modo, una cella è diventata non solo un altro significativo ‘cuore pensante’ del primo Novecento, ma anche il laboratorio di un processo, certamente doloroso e faticoso, che ha condotto il pensatore sardo alle soglie della complessità con indicarla come una meta della ragione più matura dell’umanità intera che come tale ha il dovere di renderla un compagno di viaggio nelle sue tormentate vicende; una mente creativa, segnata dalla sofferenza e nello stesso tempo da quel ‘sacro fuoco della verità’ che scorre nelle vene a dirla con Florenskij, ha messo in campo alcuni strumenti per educare ad assegnare alla ‘cultura’ la capacità di farci approdare ad una ‘coscienza superiore’: “ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri… Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque voglia”. Non si poteva, pertanto, non partorire un percorso che indica delle prospettive e dei progetti per il futuro del pensiero; e pagina dopo pagina si riesce a dare consistenza ad un volto della complessità che chiaramente può sembrare germinale se visto alla luce dei risultati della ricerca odierna. Ma essa è stata ‘sentita’, ‘percepita’ e ‘vissuta’ tra quattro mura come un compagno di cella prima di assumere una certa fisionomia concettuale con la quale rivedere il mondo e le sue logiche e dare più senso alla propria esistenza di carcerato in nome di certi principi che non potevano accettare cedimenti e compromessi, come nel caso di Zenone e di tanti altri martiri della ragione filosofica e scientifica.
E non è dunque un caso se sia Florenskij che Bonhoeffer e Gramsci, ognuno con le sue ragioni ma accomunati dal sacrificio delle proprie vite, siano approdati alla complessità dove la ‘riforma del pensiero’, invocata e messa in atto, non è solo il risultato di un percorso di natura concettuale, ma il combinato dello stretto legame tra pensiero ed esistenza; ed il loro viaggio nella complessità, pur trovando nelle acque sempre turbolente della conoscenza da quella filosofico-scientifica a quella teologica le fonti primarie col farne una indispensabile risorsa, trova le radici nelle pieghe della vita da continuare a scovare pure in condizioni estreme. Vivere con intensità tra le sue rugosità li ha liberati innanzitutto dalle trappole a volte totalizzati del pensiero ad una dimensione, in cui spesso molti filosofi sia del passato che del ‘900 si sono fatti avvolgere più o meno coscientemente; ed in primis, per questi martiri del pensiero critico, si ritiene necessario smacherare quelle maestose ‘impalcature concettuali’ costruite per dare ragione del reale diventate vere e proprie ‘prigioni dello spirito’, per usare delle espressioni di Gaston Bachelard ed Hélène Metzger, figure a loro volta per altre strade pervenute alla ragione complessa, vista come antidoto in nome della più sana ragione scientifico-filosofica alle logiche semplicistiche ritenute l’anticamera delle posizioni totalitarie (Hélène Metzger: la complessità come rimedio razionale, 20 agosto 2020).
Infatti, la lezione di Gramsci, certamente più politica, è un inno alla libertà di pensiero, ma tale esito è frutto della necessità di liberarsi come genere umano dalla tirannia del pensiero stesso se esso diventa strumento di potere col manipolare le coscienze indirizzandole verso falsi miti, come del resto è avvenuto nel primo Novecento, e sempre pronti a riemergere e rinnovarsi in base ai movimenti acceleratori impressi nella nostra era dell’Antropocene dalle diverse tecnologie che, se non governate e lasciate a se stesse, rischiano di portare all’impoverimento dell’intelligenza collettiva col portare a quel ‘capitalismo digitale’, come ha scritto recentemente Bernard Stiegler in Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità (Milano, Meltemi, 2024); per questo nelle pagine dei Quaderni del carcere, si invitano gli uomini a liberarsi dai dogmi della mente che sono quelli più difficili da individuare e a tale impresa, non più solo di natura cognitiva ma esistenziale tout court, tutti sono invitati a dare un contributo con l’essere dei ‘filosofi’ se lo vogliono per mettere in campo alternative credibili. Così, il pensare come comunità globale, oggi da più parti ritenuto sempre più strategico, è il risultato gramscianamente pervenuto ad una ‘coscienza superiore’; e diventa un ingrediente per ‘curare’ prima se stessi e le diverse patologie create dalla nostra storia e poi, con l’aiuto indispensabile delle risorse del più sano pensiero scientifico, per riorientare le nostre azioni nei confronti delle logiche del mondo, una volta compreso il fondamentale fatto che le nostre vite sono e saranno sempre più intrecciate con le sue sorti.
Così una cella e quattro mura hanno permesso ad una mente di mettere in piedi un percorso col suo corredo di vari frutti che, adeguatamente metabolizzati, non solo ci hanno dato un pensiero più vigile, ma possono aiutare a ripristinare momenti di nascita e di rinascita di nuovi orizzonti nelle coscienze; oggi in ogni campo dell’umano ci sono tutte le condizioni di base per cambiare radicalmente pagina e sta alla nostra volontà, nel senso di Antonio Gramsci, sia presi singolarmente che come comunità, essere ‘filosofi’, cioè persone in grado di saper interpretare adeguatamente i segni e gli indizi del nostro tempo, di vederne la dimensione varitativa più o meno implicita per ‘abitarli’ con una ‘coscienza superiore’ o, diremmo oggi, complessa, uno strumento che, se ben indirizzato e metabolizzato, può ancora essere in grado di non farci cadere nelle logiche di autoannientamento che stiamo allegramente alimentando con le nostre azioni.
Le targhe commemorative delle detenzioni di Gramsci e Pertini all'ingresso del Carcere di Turi (foto di Paolo Farina)