
C’è ancora vita da vivere, da ricostruire a partire dai frammenti
“Forse sono ferito senza essere insanguinato”, scrive Pablo Neruda. Ed è vero: tante volte, ci portiamo dentro i segni delle devastazioni vissute, subite e, perché no, inferte. Sono segni indelebili e silenti, cicatrici senza sangue eppure dolorose, che vibrano di ricordi e pulsano a ritmo di certe parole che le risvegliano, come quando altre cicatrici, quelle fisiche, fanno male per un cambiamento meteorologico.
Sono segni di sconfitta oppure di vittoria? Abituati come siamo a spiritualizzare la sofferenza, quasi a cercarcela avidamente, risponderemmo subito con la seconda ipotesi. La vittoria più grande, in realtà, è vivere ogni giorno appieno, guardare dritto in faccia le cose, e ciò implica il non cercare rifugi sicuri per evitare di soffrire, né consolazioni a buon mercato per spiegare i motivi reconditi della sofferenza. Perché è ingiusta, sempre.
Anch’essa, però, va affrontata e il primo segno dell’elaborazione è riuscire a convivere con le pulsioni delle cicatrici e con la mancanza di risposte adeguate, educando la tentazione di trovare rattoppi pure convincenti, o pietre apparentemente adatte, eppure non bastevoli a coprire e colmare certe brecce. “Il cuore ha le sue brecce che la ragione non comprende”: si lo so, Pascal l’aveva detta diversa, ma è per dire come di fronte a certi avvenimenti tristi e distruttivi non ci siano spiegazioni raziocinanti che tengano.
Breccia è connesso al tedesco brechen e all’inglese broken, tutti derivanti dal francofono breka, cioè “frattura”. Mi veniva in mente questa parola guardando la fessura rotonda di un muro ben fortificato: il grigio marmoreo del cemento era quasi del tutto annullato da uno scorcio di cielo arancione, da uno spicchio di tramonto. E ho pensato che la cosa bella di una rottura, di una frattura, di una breccia è l’interruzione delle certezze assolute, della sicurezza estrema, della convinzione di poter vivere irrigiditi nella propria struttura.
L’unica cosa degna di compensare una ferita è la possibilità di cambiare idea, su di noi e sugli altri, e di scoprirci diversi, meno infrangibili, testardi, orgogliosi. La fissità è rassicurante, la linearità pure: tutto va come deve andare, com’è stato pensato ed io rimango tale e quale. Ma è solo il fondamentalismo di chi vede nelle contraddizioni e nei cambiamenti, derivanti dalla sofferenza, un pericolo per la propria identità. E magari, a furia di irrigidirsi pur di non rompersi e cambiare, spezza gli altri, fino a spezzarsi irrimediabilmente in prima persona.
La parola breccia in realtà, oltre all’apertura di un muro, richiama un materiale roccioso di risulta simile alla ghiaia, il brecciolino: in effetti una frattura nei nostri piani accuratamente studiati, oltre al vantaggio del cambiamento, offre la possibilità di affinare la fantasia. Voglio dire che ci si può ingegnare per rinascere, riassemblando i pezzi e i frammenti del cuore. Perché così come non si dovrebbero cercare facili consolazioni e risposte veloci, si dovrebbe evitare pure di credere, a fronte di certi eventi, che “è tutto finito” e che “non c’è più nulla da fare”. Questo pessimismo cela, in fondo, la fissazione del non-cambiamento.
No: c’è ancora vita da vivere, da ricostruire a partire dai frammenti, brecciolino esistenziale per impedire al dolore di avere l’ultima parola su di noi. Gli scorci visibili dalle fratture della vita sono innumerevoli e di una bellezza mozzafiato; non appartengono alla categoria dei rattoppi facili, sono più che altro la risposta accogliente di un mondo non rassegnato al dolore e sempre pronto a stupirci, ad accoglierci, a stimolare il desiderio di reinventarsi e l’attitudine ad abbracciare i cambiamenti.
Parole che aiutano a scrollarci…. Come sempre…… Brava Michela.