
Si può addentare la cipolla e una sequenza di stagioni,
se sei seduto solo all’Isola del Kebab e mastichi
una cittadina del nord spalancata sulla cartolina
di un mare azzurro, se mastichi la tristezza
che si annida nel ricordo di un cortile
affogato nella ripicca dell’estate, e deglutisci rimpianto e piazze
nella vibrazione assolata del mezzogiorno e un tuono
lento e muto rotola e di fuori il grugnire del traffico
ti fa dono di un piccolo disprezzo. Mastichi solo, e in quella
solitudine si affaccia il muso di un gatto, si affaccia
il vecchio muso di una donna. Una solitudine che parla,
ti prende il cuore tra le mani e lo scaraventa per terra.
Può accadere così che santa Edvige faccia apparire
la danzatrice col tuo stesso dialetto sulla bocca,
le tue stesse parole da bambino, la stessa
musica che ti fece da cuscino, da ombra, da riparo.
Ora non mastichi più kebab, rimpianto e solitudine, ma
la ruota di quella pancia bianca, la farina di una patria, e tutta
una notte di discorsi, di vicoli odorosi di minestra, di tramonti,
di cielo, di parole, di pelle che sa scrivere un poema.
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