
Mentre chi fino a giovedì 12 novembre la cosa più mediorientale che aveva visto era il kebab sotto casa, il giorno dopo si improvvisava navigato esperto del Medio Oriente, dall’altra parte c’era chi le analisi geopolitiche le mangia a colazione, ma quel giorno non sapeva davvero cosa dire, come nel caso di Greta Zunino.
La povertà intellettuale italiana (e lo dico senza la spocchia di chi vive lontano dall’Italia e disprezza il suo Paese) si è dimostrata nell’ossessiva necessità di tracciare un confine netto e rassicurante tra buoni e cattivi.
Da qualche mese vivo in Repubblica Ceca e la sera dell’attentato ero a spasso per la Slovacchia, senza alcuna connessione. Le notizie sono arrivate il giorno dopo, quando le polveri e i calcinacci si erano già posati sul sangue rappreso.
Il primo istinto è stato quello di cercare le notizie sui siti italiani, per timore di non capire quello che era successo. E invece l’avevo capito benissimo.
Ma quello che mi ha dato un fastidio tale da dover spegnere per ventiquattr’ore il cellulare è stata la stampa italiana, che piuttosto che permettere ai lettori di comprendere la complessità della realtà, preferisce la semplicità delle chiacchiere. E mi sono ritrovata una lista tanto lunga quanto inutile di aggiornamenti in tempo reale (si legga: cronologia dei fatti), dettagliate descrizioni di come è morta Valeria Solesin, ma quel che è peggio, interviste ai vicini di casa dei presunti terroristi. Si suppone che il ruolo del giornalista sia quello di fare da filtro tra il caos delle informazioni e la necessità di comprensione da parte del lettore (che magari non è musulmano, non è francese, non sa nemmeno se l’Is sia uno stato vero e proprio né tanto meno che diamine siano le banlieu). No, ci si limita ad una trasmissione delle notizie. E quando ci si trova sbattuti in faccia “89 giovani uccisi ad un concerto da terroristi islamici”, che si fa? Si cerca un senso.
E quindi si esprimono in totale libertà baggianate più o meno grandi, opinioni formate leggendo altre opinioni, che finiscono col creare un dibattito basato sulla fuffa.
Ma in tutto questo caos, c’è stato un interessante movimento di quelli che hanno ripetuto per tutto questo tempo “Restiamo Umani”, citando Vittorio Arrigoni, protestando contro la doppia morale occidentale che si indigna e si dispera per l’attentato di Parigi, mentre ignora quello di poche ore prima a Beirut.
Ecco, queste persone mi hanno fatto riflettere sulla profonda ipocrisia di cui siamo talmente permeati, che anche la volontà di non perdere l’umanità diventa una posa. Quante immagini dei cadaveri al Bataclan sono state mostrate? Nessuna. Ci fa orrore solo l’idea di poter vedere un ragazzo con i tatuaggi sulle braccia come quelli del nostro amico, perché abbiamo l’assoluta certezza che ci rispecchieremmo in maniera totale con quei corpi.
Quante testimonianze dei sopravvissuti abbiamo letto? Tantissime.
Quante immagini dei corpicini dei bambini palestinesi morti in questo o quell’attacco ci vengono mostrate? Quante volte è stata pubblicata l’orribile immagine dei 148 studenti morti nel Campus universitario in Kenya?
Continuamente.
E in quest’ultimo esempio, quante testimonianze dei sopravvissuti abbiamo letto? Nessuna. Perché non è che ce ne freghi così tanto di immedesimarci con gli studenti kenyoti.
Perché abbiamo bisogno di essere disgustati, sconvolti da immagini brutali per poterci sentire almeno prossimi a queste realtà. E in questo caso, per quanto l’intento sia giusto, non riusciamo a “restare umani” se necessitiamo questa violenza. E non è nemmeno vero che possiamo sentirci solidali con ogni genere di strage o attacco terroristico di questo mondo, proprio perché siamo umani e per sentirci solidali abbiamo bisogno di sentirci prossimi.
E per sentirci prossimi, dobbiamo trattarci da uguali.
Quello che intendo con “trattarci da uguali” è: perché per esprimere la propria solidarietà, il proprio rifiuto per la violenza, abbiamo ancora bisogno di mettere una bandiera sull’immagine del profilo? È chiaro che ci sarà sempre una strage più grande, più sconvolgente che aprirà l’ennesimo dibattito sul “perché la bandiera francese sì e non quella libanese/palestinese/kenyota?” Perché invece non si dà più risalto al fatto che le vittime erano studenti, ragazzini che passeggiavano per strada bevendo la coca-cola, o che quella ragazza aveva fatto la volontaria in qualche campo profughi?
Si è dato importanza a questo genere di informazioni nella strage di Parigi, nelle altre no. Solo numeri, nazionalità, ogni tanto età. Questo genere di informazioni ci rende distanti, tanto da doverci tirare un cazzotto in faccia e dover vedere la foto di quei cadaveri per poter fare un passo indietro e dire “no, questo è sbagliato, voglio restare umana”, disumanizzando.
Gazebo, che reputo una trasmissione di grande qualità e spessore, nella puntata di giovedì 19 novembre ha mostrato un’immagine che mi ha particolarmente colpita. Place de la Republique, a pochi passi dai luoghi delle stragi, è presidiata per tutto il giorno da centinaia di persone. Spontaneamente, si creano piccoli gruppi di persone che tra di loro non si conoscono, ma iniziano a discutere, a cercare di dare un senso e una forma a quello che è successo. E non lo fanno da casa, da dietro un computer. Hanno bisogno di farlo dal vivo, con altri esseri umani che per un caso statistico sono sopravvissuti.
Ebbene, questo è il senso del “restare umani”. Nessuna di quelle persone che si ritrova in Place de la Republique sembra chiedersi se la persona con cui si sta confrontando si senta più francese o libanese. Sanno di avere paura, di provare lo stesso sentimento e quindi di sentirsi vicini.
E questa povera informazione basata sui fatti piuttosto che sulle spiegazioni, rende impossibile restare umani, se ci impedisce di capire (e di capirci).