Penso alla pazienza di questo Figlio tradito, umiliato e crocifisso come un ladro
La riflessione sulla figliolanza mi addentra nei meandri di un tema delicatissimo: quello della sofferenza. Il precedente articolo già ne faceva cenno, culminando in chiosa nel riferimento ad un dolore tutto peculiare, quello di Gesù Cristo, il Figlio di Dio che ha ben conosciuto il patire.
Effettivamente non esiste un paradigma, un simbolo che meglio della croce incarni la drammaticità della sofferenza di un figlio e di un uomo in genere. Ma, per chi crede, non si tratta di un semplice modello; nel credente, in virtù del battesimo, abita e si muove un dinamismo continuo di morte e risurrezione, poiché egli è chiamato a fare proprio il mistero pasquale. Il centro della fede cristiana non è il dolore, bensì il gaudio di un’esistenza rinnovata in perenne, tensionante attesa del proprio compimento.
Sofferenza e dolore sono parole rischiose, attraverso le quali i credenti si sono guadagnati il giudizio di un’inclinazione ad un certo masochismo, attraverso il quale squarciare il velo dell’Eterno per commuoverlo e costringerlo ad avere pietà della misera condizione umana.
Ma non è colpa delle parole, mai. Esse hanno una performatività dirompente, nascosta nel nucleo di un’etimologia sempre densa di tesori e bisognosa solo di esprimersi.
Soffrire: il vocabolario latino, dopo una sfilza di possibili rese del termine, cita il verbo patior, lessema connesso al verbo greco paschein, ossia soffrire ed emozionarsi.
Passione e pasqua, altisonanti termini di questi giornate cariche di riti, tanto per chi si accosta ad essi solo per tradizione quanto per chi li innerva di convinzione, appartengono al campo semantico del sopracitato paschein. Ma che cosa celebriamo e che cosa cerchiamo? La ripetitività di ritualismi che ci fanno sentire al sicuro dal tempo che passa? Il senso di ogni inutile, eppure inevitabile sofferenza? La consolazione? La conferma che, se pure il Figlio di Dio ha patito, allora bisogna tenersi strette le proprie croci, magari per essere come Lui e degni di Lui? E se nemmeno le parole in questo caso bastassero?
In effetti nessuna parola di fronte alla sofferenza è realmente efficace. Penso alle lacrime di tanti genitori che assistono impotenti al dolore dei propri figli, in un interminabile, esistenziale venerdì santo, spesso liquidato con frasi di una sterilità sconcertante: «il dolore è un dono», «è volontà di Dio». Come se per Gesù fosse stato semplice capire di dover morire e affrontare tutta quella sofferenza. Come se il Padre lo avesse offerto come sacrificio umano riparatore di tutto il male del mondo per una misteriosa volontà marmorea ed incrollabile.
Allora mi viene in mente un’altra parola, anch’essa connessa a paschein, anch’essa fraintesa e densa di tesori inesplorati: pazienza. Non è l’atteggiamento arrendevole ed irenico di chi lascia scorrere davanti a sé fiumi di sangue, consolandosi con l’attesa di un mondo migliore e spiritualizzando fino all’assurdo. È lo stare: in silenzio, nella vita, nel suo flusso inarrestabile, nel suo misterioso intreccio di bene e di male. È il dimorare in ogni situazione, con tutto il carico emotivo, passionale, sentimentale richiesto, senza scappare dalla porta d’emergenza, senza ricavare nel cuore stanze insonorizzate per anestetizzare il vissuto.
Penso alla pazienza di questo Figlio tradito, umiliato e crocifisso come un ladro. La pazienza di non restituire male per male, di assumersi la responsabilità di parole e gesti davanti ad un popolo incredulo, visibilmente e comprensibilmente in difficoltà di fronte alla rivoluzione umana, culturale, teologica apportata dal suo ministero. La pazienza vibrante nelle urla e nella preghiera accorata La pazienza di sopportare pure il silenzio del Padre, il quale fa coincidere la propria volontà salvifica universale nella passione del Figlio, in un incrocio misterioso di volontà, libertà, gratuità, non totale consapevolezza, nel quale è palese quanta densità contenga la fantomatica «volontà di Dio» e quale responsabilità implichi il tirarla in ballo. La pazienza, infine, di non restare chiuso, di perseverare nella relazione, nella comunione che apre il dolore: noi siamo salvati non dalla violenza del sangue o dalla brutalità della croce in loro stesse, ma dalla relazione d’amore costante tra Padre e Figlio, nella quale per mezzo dell’incarnazione siamo entrati, associati a Gesù.
Il mito di Atlante vede nel dover reggere il globo una condanna; nella storia del Nazareno il mito è sovvertito: nel suo stare sotto il peso della croce, sul quale grava tutto il male del mondo, egli esercita attivamente la potenza salvifica. Hypomonè, il termine greco che traduce pazienza, significa letteralmente stare sotto. Può riuscirci solo chi ha speranza, come Gesù, che non finisce tutto lì, che il male non ha l’ultima parola, che non vale la pena accartocciarsi egoisticamente nel dolore.
Ogni volta che questa speranza vince è Pasqua.