
Non basta essere biologicamente concepiti e partoriti e materialmente cresciuti per fare esperienza di autentica figliolanza
Mogli e mariti, fratelli e sorelle si può non averne. Lo stesso dicasi per i figli; eppure la figliolanza è sempre in gioco quando si parla della persona, perché anche se non si hanno materialmente dei figli, si è sempre, necessariamente figli di qualcuno. È un dato di fatto.
Sentirsi figli è un’esperienza impareggiabile. Dico sentirsi perché non basta essere biologicamente concepiti e partoriti e materialmente cresciuti per fare esperienza di autentica figliolanza. Sperimentare la gioia di essere il pensiero fisso di un padre e la preoccupazione continua di una madre…sì, toccare con mano questa cura perpetua, fino alla convinzione che, nonostante tutto e nonostante tutti, c’è e ci sarà sempre qualcuno disposto a dare la vita, nelle grandi come nelle piccole cose, è l’esperienza che rende realmente figli e che, in fondo, fa di un essere umano una persona.
Persona viene da prosopon, lì dove pros indica lo stare di fronte e lo stare di fronte è la condizione di una relazione piena, vera, generativa. È uno stare faccia a faccia, con il viso rivolto verso l’altro senza timore, senza soggezione, senza odio; è la posizione nella quale risplende la dignità. Risplende, perché comunque vadano le cose nella vita di qualcuno la dignità c’è e resta per sempre.
L’atto del concepimento è grande per questo incontro frontale, alla pari; l’amore mette di fronte, eguaglia senza livellare, fà l’unione mantenendo la distinzione e la peculiarità, tutela l’incontro come cifra di un’umanità realizzata nella sua più alta vocazione: il dono di sé.
Ma fare un figlio è molto più che unirsi. Avere figli è molto più di un diritto da pretendere accanto agli altri. E diventare figli è il cammino di tutta una vita.
Uno dei possibili modi per dire figlio è liber. La figliolanza è sempre esperienza di liberazione da qualcosa: dal monadismo, sconfitto dal due da cui si proviene; dall’illusione dell’autosufficienza, travolta dal flusso di generosità del seno materno; dai sogni di potenza fino all’autodistruzione, contenuti (si spera) dall’autorità genitoriale, quella paterna in particolare; dall’egoismo, sfidato da questa genetica vocazione al dono.
Un figlio la libertà la insegue, la conquista e la perde da quando nasce: si libera da un cordone per imparare a liberarsi da tanti altri lacci, in casa e fuori casa; si libera dalle mani degli adulti per imparare a camminare, correre, cadere e rialzarsi; si libera dalla pretesa genitoriale dell’immagine e somiglianza, nella quale l’adulto pretende di imporre i propri sogni e progetti (soprattutto quelli irrealizzati), e combatte la sua battaglia per affermare il proprio diritto ad essere diverso, come dice Recalcati; si libera soprattutto quando varca la soglia di casa per costruirsi un futuro e scopre, magari, come la solitudine non sia l’esatta traduzione della libertà inseguita. E allora si libera dalle fantasie e fa pace con le idee, con le autorità rifiutate e scopre, nel riequilibrare i rapporti con i genitori, che nessuna libertà è sganciata dalle regole e dai confronti. Come Telemaco, sperimenta che la sua Itaca è libera solo con l’autorità paterna al proprio interno. Un figlio deve arrivare a questa consapevolezza: da qui dipenderà il suo essere seminatore di vita, materialmente e/o spiritualmente.
Non importa quanti figli si mettono al mondo: la persona sempre è chiamata, nei modi più impensabili e nei luoghi più inesplorati, a riversare sugli altri la vita ricevuta, a generare qualcuno e qualcosa. Penso agli insegnanti, i quali magari hanno due, tre, quattro figli naturali…e poi intere generazioni di figli acquisiti tra i banchi di scuola; penso ai medici e alle grandiose potenzialità della scienza che, attraverso le loro mani, i loro cervelli, i loro cuori, ridanno vita alla vita una, dieci, cento volte; penso a tanti preti innamorati del proprio ministero, nullatenenti e padri, padri pieni di figli che per sempre saranno loro grati per un gesto, una parola capaci in un determinato momento di partorirli di nuovo.
E gli esempi potrebbero andare avanti all’infinito.
La sfida, però, è tornare continuamente figli, ricollocarsi sempre in quella dipendenza, in quell’innocenza, in quello slancio anche ribelle tipici della figliolanza. Perché la capacità generativa cui la persona è chiamata si prova nel fuoco di questa esperienza antropologica comune ed irrinunciabile: nelle sue ferite, nelle sue morti, nelle sue risurrezioni abita la forza e la possibilità di ridonare la vita ricevuta. Il canale da cui l’umanità tutta è stata partorita ad una vita completamente rinnovata, del resto, è il costato trafitto, aperto di un figlio donato: il Figlio di Dio.