Siracusa, campo di accoglienza minori, settembre 2013.
Cosa può spingere una giovane madre a mettere da solo su un barcone il figlio undicenne in mezzo al mare?
Cosa può esserci di più brutto e terribile sulla terra ferma da preferire il mare?
Come può una donna, che ha tenuto per nove mesi ed undici anni accanto a sé il proprio figlio con amore e dedizione, decidere di affidarlo a gente da forca che lo accompagneranno verso l’ignoto?
Me lo sono chiesta, ieri sera.
Lui è piccolo per la sua età, ha curiosi capelli ricci e rossicci, grandi orecchie a sventola e due occhi che mi rapiscono.
Per la loro inespressività.
Non racconterò la sua storia, è una storia già sentita, neppure originale, non merita più attenzione delle altre.
Ma quello sguardo cattura la mia attenzione, di madre soprattutto.
Dentro quegli occhi spenti si riflettono i miei, in fondo siamo in barca tutti e due e entrambi abbiamo perso qualcosa, lui sua madre, io i miei figli lontani.
Ma una differenza sostanziale ci distingue e lo sappiamo bene, lui ed io.
Ma per un momento ci siamo ritrovati soli, spaesati, abbandonati ai nostri destini, quasi senza emozioni, anestetizzati di fronte ad ogni dolore.
Mi guardavi e forse pensavi a tua madre.
Ti guardavo e respiravo a fondo, immaginando i miei figli a casa al sicuro con il loro padre.
Non avevo altro che un ciupa ciupa e mi hai sorriso mostrando quel sorriso imperfetto, ma perfetto per me, per noi, per quel pomeriggio fatto di troppi silenzi e qualche goccia di pioggia.
E ti dico solo ciao.