In pochi conoscono William Sidis, eppure è l’uomo più intelligente mai nato. Partiamo con una semplice cifra: 254. Il suo quoziente intellettivo, calcolato nel 1933, il più alto mai misurato finora. Ma non è un numero a fare la differenza, bensì i fatti.
William James Sidis nasce a New York il 1º aprile 1898 e, a leggerne la vita, ci si convince di essere davvero di fronte a un pesce d’aprile: a sei mesi parla già, a un anno si esprime perfettamente, a 18 mesi legge il New York Times e a tre anni usa una macchina da scrivere.
Impara greco e latino nel giro di un anno, arrivando a padroneggiare più di dieci lingue. E siamo solo a 6 anni. Età in cui già frequenta le aule universitarie di Harvard per sostenere conferenze sulla Geometria non euclidea. Mai pago di quello che può apprendere, inventa una nuova lingua, il vendergood, un idioma artificiale basato sulla fusione di latino, greco e alcune lingue romanze. Si stima che abbia imparato, nel corso della sua seppur breve vita, circa quaranta lingue, mettendo in pratica un personale metodo di decrittazione basato su calcoli matematici di ricorrenza dei termini all’interno delle frasi.
Sembra un cliché, ma William è solo, perché corre troppo. Non nei parchi pubblici a sbucciarsi le ginocchia, verso il cinema o dietro le ragazze, ma con la mente. Allora William, improvvisamente, non è un prodigio della natura ma solo un bambino, e poi un ragazzo, troppo intelligente, troppo adulto per godere della “consueta normalità” che la vita, a volte, offre. Cresce inseguito dalla curiosità della stampa dell’epoca come fosse un fenomeno da baraccone e rifiutato dai coetanei che – prevedibilmente – non lo capiscono. Mentre il mondo va alla consueta velocità William scrive saggi di matematica e astronomia, legge Kant, Marx, Giulio Cesare e ipotizza, negli anni in cui proprio Einstein pubblica le sue teorie sulla relatività, i buchi neri; finché, a soli 11 anni presenta ad Harvard una sua teoria sulla Quarta Dimensione davanti a un uditorio incredulo. A 16 anni si laurea col massimo dei voti e già insegna all’università, tenendo corsi di Trigonometria, Geometria euclidea e non-euclidea per i quali scrive in greco le dispense, causa di scherno da parte dei suoi alunni. Alunni che sono più grandi di lui.
Il piccolo genio possiede la cosiddetta memoria eidetica – stessa riconosciuta a Mozart – una particolare memoria visiva in grado di associare concetti e nozioni a immagini preconfezionate, cioè di creare delle vere e proprie immagini mentali. Pare che tutti i bambini abbiano questa capacità “fotografica” che poi però, nel corso della crescita, svanisce.
Non si sa fino a che punto i genitori, entrambi medici, siano stati colpevoli di aver teso la sua crescita intellettuale come un elastico senza fine; fiduciosi nei confronti dell’umana possibilità di superare i limiti, lo hanno educato a una curiosità insaziabile per ogni tipo di conoscenza, votandolo a una vita fatta di libri e nozioni, e mai di giochi e spensieratezza.
Il padre, Boris, professore di psicologia ad Harvard, pare abbia sperimentato su di lui alcune sue idee sul meccanismo di apprendimento dichiarando che l’intelligenza precoce del figlio sia stata il risultato di un’educazione ben riuscita e non uno scherzo della natura. «Billy non è un genio – diceva – è un bambino sanissimo e normalissimo. Solo, forse, un po’ più dotato dei suoi coetanei».
William cresce così, ma riesce a maturare l’unico ideale forse puro, perché scelto per indole e non per “educazione”: il socialismo. Idealista di cuore, traduce agli immigrati gli ideali bolscevichi, partecipa a riunioni e rifiuta scientificamente la guerra, perché dai suoi calcoli emerge che i conflitti non hanno mai risolto nulla.
E mi si contorce il cuore all’idea che l’unica cosa davvero voluta e sentita da William lo abbia portato a vivere l’inferno più tetro e bruciante della sua vita: 1 maggio del 1919 partecipa a una manifestazione poi bloccata dalla polizia ed è condannato a 18 mesi di carcere. La notizia prolifera sui giornali e i genitori, contro la sua volontà, ne riconoscono l’infermità mentale in modo che possa scontare la pena nel loro ospedale psichiatrico e non in prigione. Ma a un certo punto William fugge, rinnegando le sue stesse eccellenze, rifiutando, più di ogni cosa, la sua mente prodigiosa; molla tutto e si dedica a lavori d’ufficio, cercando di nascondere la sua identità, portando avanti una vita da impiegato senza bagliori, senza rapporti, senza passato e continua ad accrescere il buco nero della sua solitudine.
Una solitudine che lo fa scoppiare, in silenzio, da solo, mentre forse immagina la vita “normale” che avrebbe potuto avere. Un’emorragia cerebrale. A soli 46 anni. Paradossalmente è il suo stesso cervello senza confini a definirli, poi, una volta per tutte.
Mi va di ricordarlo prendendo in prestito una citazione del libro La vita perfetta di William Sidis di Morten Brask (Iperborea, 2014) che mi ha permesso di conoscere questa storia esemplare e struggente, mi ha fatto piangere per la vita di un uomo che, ritengo, non sia mai davvero cominciata e mi ha portato a pensare: se avessi un figlio così sarei infelice, per lui. E cercherei in tutti i modi di gli insegnargli un po’ di sana “stupidità”.
William […] raggiunge la porta girevole insieme a un uomo con un abito impeccabilmente stirato, di sicuro un capoufficio. Si fermano entrambi […] Esitano entrambi. Chi ha il diritto di passare per primo? Chi ha il dovere di dare la precedenza? Che regola vale quando due uomini si trovano a uscire da una porta nello stesso momento? William cede il passo. «Dopo di lei» dice.
Il capoufficio ringrazia con un cenno e prosegue. William entra nel vano seguente, spinge l’anta girevole e si chiede: se in un giorno anche solo un quarto dei 400.824 cittadini maschi di Boston, indipendentemente dall’età, cedesse il passo a un altro davanti a una porta, il che richiede, diciamo, tre secondi, avremmo un totale di 83,51 ore di gentilezza quotidiana. Così poco. Così tanto.
Valentina Capogna
[Foto: Boston Herald ]