Consigli di una cinefila impaziente.

Con il cinema alcuni ci crescono, alla fine.

A otto anni con le mani davanti agli occhi pretendevo di guardare Godzilla, a quattordici tornavo ogni giorno da scuola con un dvd diverso nello zaino e sognavo di fare la regista di mestiere. C’erano i videonoleggi.

Continuo a crescere con il cinema a partire da quei momenti ogni giorno. Ci sono state giornate di vacanza da scuola in cui vedevo come minimo tre film, giorni intensi recenti che non mi permettono di vederne neanche uno. Ma l’effetto resta. Quest’arte – che io considero globale – mi avvolge, fa parte ormai della mia vita.

A venticinque anni sfoglio con gli occhi affamati il programma della Festa del Cinema di Roma di quest’anno, edizione numero 11. Devo incastrare proiezioni, incontri con registi e attori, omaggi alle star del passato, eventi. Devo ringraziare Odysseo che mi fa il regalo di parteciparvi per la prima volta come accreditata stampa.

Noto che, come ogni volta che si parla di una propria particolare passione, le parole scivolano alla mente. Alla fine, quando interrogati sul perché di un amore, di solito non sappiamo spiegarci. Ci si butta: ciò che resta è lo stupore.

Perciò, mentre mi preparo ad accogliere questa prossima Festa, mi limiterò a dare qualche consiglio pratico ai lettori di questo articolo, che funzioneranno come un’immediata immersione in quello che io considero il cinema, i film che per me lo rappresentano al meglio. E attenzione a parlare di preferiti: i cinefili non ne hanno.

Boogie Nights (Paul Thomas Anderson, 1997)

La prima volta che ho pronunciato la frase “Quel film è il cinema” sono sicura mi riferissi a Boogie Nights. Paul Thomas Anderson illustra le follie, le paranoie, i sogni, la normalità di un gruppo di attori porno negli anni Settanta, quando fare porno non significava dare scandalo: significava semplicemente un’altra forma di cinema e d’arte. Il regista porno è un’artista. L’attore porno fuori dal set non è giudicato. E il cinema porno ha un suo valore, una sua artisticità. Ma poi arrivano gli anni Ottanta, pantaloni a zampa e capelli cotonati. E assieme alle luci psichedeliche e alle indimenticabili musiche, ecco VHS, sensi di colpa e una nuova ventata di moralità. Ed è subito crollo.

Vedere per credere.

La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013)

Adele è un’adolescente. Va a scuola, cammina, la vediamo sul bus, che legge La vita di Marianna di Marivaux ad alta voce in classe. Esce con gli amici, fa la doccia, si acconcia i capelli in quelle maniere strane e distratte, un po’ è schiva e un po’ non le interessa. Poi mangia, mangia, si pulisce le labbra con le dita, e si sporca.

Quante volte avete visto gli attori mangiare in un film? Se non è funzionale, se non c’è una scena importante che includa lo stare a tavola, direi che possiamo contarle sulle dita di una mano. Invece ne La vita di Adele siamo gli spettatori autorizzati di ogni istante della vita della protagonista, dal più apparentemente futile a quelli che fanno le scintille. E le scintille le fa una ragazza con i capelli blu e gli occhi pure, che Adele incontra per caso per strada. Si innamorano e il loro amore non ci viene risparmiato, ed è così naturale che l’incursione in questo mondo così intimo non è neanche pruriginosa. D’altronde, l’abbiamo già vista dormire con la bocca aperta e mangiare il prosciutto con le mani. E alla fine del film ci sembrerà di aver passato dieci anni con lei.

Magia e semplicità del racconto cinematografico.

The Artist (Michel Hazanavicius, 2011)

Immaginatevi di entrare nella sala di un antico teatro trasformato in cinema: sipario, lumi, velluto rosso. Vi ricordate che vi era piaciuto il trailer, non sapete perché, non avete altre informazioni sul film. Vi sedete nella vostra poltroncina, le luci si spengono e il film comincia.

I titoli sono statici, in bianco e nero. Il protagonista porta i baffetti e un completo con papillon. Anche lui è in bianco e nero. Mentre una musica travolgente tiene il ritmo della scena, lui urla sotto tortura ma non ne sentiamo la voce. Appare invece un cartello: “Non parlerò! Non dirò una parola!”

È un film muto, in bianco e nero, ed è il 2011. Chi ha il coraggio di fare questo, ai giorni nostri, in un momento in cui il cinema potrebbe godere dei privilegi di ogni effetto speciale e digitale possibile? Il regista francese Michel Hazanavicius, che ci racconta la storia di George Valentin (il nome vi ricorda qualcuno?), famosissima star del cinema muto che deve affrontare il momento del passaggio al sonoro. È un trauma, come lo è stato davvero per le star di quegli anni: alcune cadute in depressione – troppa gestualità, voce inadatta – e altre spinte sino all’orlo del suicidio.

Ha senso, è dunque geniale proporci la sua storia in quel modo muto, anzi, sordo, alle nostre orecchie abituate alle esplosioni, alle conversazioni nitide del cinema moderno. E in bianco e nero. È una riflessione e un omaggio unico all’arte cinematografica, è adorazione e autocitazione. È metacinema.

Attenzione: in qualche momento i suoni compariranno. Chiedetevi il perché.

Cantando sotto la pioggia (Stanley Donen e Gene Kelly, 1952)

Dal finale di The Artist potrebbe iniziare questo film. Il musical per eccellenza: Technicolor, tip tap e personaggi canterini. E nella stessa misura nella quale Cantando sotto la pioggia usa tutti gli strumenti del suo tempo, The Artist ne rifugge. Eppure sono così simili: quella voglia di cantare per farsi sentire per la prima volta si avvicina così tanto alla voglia di tacere per saper ritornare al silenzio.

Cantando sotto la pioggia è un monumento cinematografico, che ha creato un genere e che rappresenta la reazione ottimistica e parodistica nei confronti dell’avvento del “mostro” del sonoro. Anche qui il cinema cita se stesso e la propria storia. Senza essere pedante. Con la gioia e il coraggio delle prime volte, lancia una sfida.

E una sfida ve la lancio anch’io: provate a vedere questo film senza sorridere. È una dose di buonumore.

Vi lascio alla visione, io vado a ritirare l’accredito.