La decima edizione della Festa del Cinema di Roma – conclusasi domenica scorsa – mi ha vista molto entusiasta e partecipe. Un’edizione ricchissima: ricca di pellicole (53, tra anteprime e rassegne), di diversità culturale (24 i paesi partecipanti), di spettatori e di piacevoli sorprese.
Per questioni di tempo, studio e disponibilità economica, ho avuto la possibilità di vedere solo quattro di questi film, tre della selezione ufficiale – tra cui due anteprime – e uno appartenente alla categoria “Alice nella città”, sezione dedicata ai lungometraggi i cui protagonisti sono i più giovani, e che tra l’altro deve il suo nome a un film di Wim Wenders degli anni ’70.
Nonostante la mia selezione personale fosse ridottissima, la fortuna è stata dalla mia parte: sono infatti riuscita a vedere il film che ha vinto il Premio del Pubblico BNL – fortuna ripetutasi per il secondo anno di fila – e uno che ha ricevuto la Menzione Speciale.
Da brava femminista quale sono, sono stata contentissima di aver scelto, sebbene inconsapevolmente, quattro film dalle protagoniste forti e ben caratterizzate, donne al centro dell’azione, portatrici di significati e storie di spessore.
Angry Indian Goddesses, Premio del Pubblico BNL, è il film che con più probabilità rende onore a questa descrizione.
Sei amiche si ritrovano dopo tempo riunite per l’addio al celibato e il relativo matrimonio di una di loro: le loro scorribande saranno solo il pretesto per affrontare temi più profondi – dalla posizione della donna in India alla violenza inaudita di cui sono troppo spesso vittime, in modo particolare in questo Stato – e rompere tabù, rovesciare schemi e convenzioni – sulla maternità, sul lavoro, sulla sessualità.
Primo “bud movie” al femminile indiano, Angry Indian Goddesses esplicita con coraggio la dimensione della femminilità in un paese come l’India, mostrandone le sfaccettature, le differenze, le inevitabili difficoltà. È un film che mi ha sicuramente colpita, anche se meno di altri di cui parlerò più avanti, più per il contenuto culturale che per la forma filmica in sé; nella mia modesta opinione ho trovato che il “collante” della storia e delle sue varie parti fosse un po’ debole. Toccanti e credibili le interpretazioni delle protagoniste, bravissime in effetti. Alcune di loro erano presenti in sala durante la proiezione e, ai nostri complimenti e ringraziamenti per il film, rispondevano con dei “Thank you” così pieni di commozione da lasciarci stupiti, e farci riflettere sul “peso” morale che doveva avere per loro un lavoro di quel genere: sociale, più che cinematografico.
Cambiando latitudine, ma rimanendo sulla stessa lunghezza d’onda, Mustang, film che si è guadagnato la Menzione Speciale e che già viaggia verso un papabile Oscar come film straniero, racconta la disfatta e la resistenza di una Turchia rurale davanti alle sfide della modernità attraverso gli occhi di cinque sorelle adolescenti.
Durante i festeggiamenti per l’ultimo giorno di scuola, le cinque ragazze giocano in spiaggia con i loro coetanei maschi: seppur completamente vestite e benintenzionate, il loro comportamento verrà giudicato osceno e riprovevole, dando il via a un vortice di pesanti punizioni e ingiustizie. Lontano da Istanbul e dal miraggio dell’occidentalizzazione, sotto la tirannia dello zio maschilista e della nonna arretrata, le minigonne diventano sacchi sformati, il cielo si copre di sbarre, l’amore si trasforma in un affare deciso a tavolino. Sedici anni e molte citazioni dopo Il giardino delle vergini suicide, le giovanissime protagoniste reagiranno l’una in maniera diversa dall’altra, fino alla svolta imposta dalle due più piccole.
Un’opera prima che fa ben sperare, in cui leggerezza, intimità e profondità si fondono con sapienza e iniziano a un’elegante idea di femminismo. Mustang coinvolge lo spettatore partendo da elementi semplici, facilmente riconoscibili e condivisibili: la voglia di vivere, la ribellione, la ricerca della libertà di queste ragazze riaccendono un fuoco forse spento in noi, occidentali capaci di parlare in maniera eccelsa di certi valori ma lontani dallo sperimentarli davvero, in un’area di mondo in cui per fortuna non si vivono particolari difficoltà.
Come un raggio di sole che filtra per caso dall’apertura di una persiana, un piccolo incantesimo a rischiarare una stanza, il bagliore della gioventù, la luce delle immagini e sulla pelle delle protagoniste illuminano questo film, che mi ha colpita e affascinata oltremodo.
Forse il più debole tra i film che ho visto, ma non per questo dimenticabile, Mistress America racconta una generazione di sognatori disillusi, tuttofare e problematici: la nostra. Che la generazione Y sia tra le più infelici degli ultimi decenni non è una scoperta né una novità: abituati a sentirci speciali e spronati a essere ambiziosi fino all’estremo, crediamo di poter far tutto, quando forse non è proprio così.
Le vite di Tracy e Brooke, le due protagoniste di questo film, si incrociano partendo proprio da questi presupposti, anche se da due origini diverse: la prima, diciottenne, è appena entrata al college e sogna di diventare scrittrice, la seconda, trentenne, si divide tra mille lavori, mille eventi, mille programmi. L’imminente matrimonio tra la madre di Tracy e il padre di Brooke le porterà ad avvicinarsi, ma cosa succederebbe se Tracy “casualmente” utilizzasse la sua futura sorellastra come fonte di ispirazione per un personaggio dei suoi racconti?
Mistress America è un film con i piedi per terra, ironico, quasi frivolo, se non fosse per la sottile spietatezza che nasconde. È il ritratto e la storia di migliaia di giovani di questa generazione, ma non si ferma a mostrare solo il punto di partenza di questa: se Tracy rappresenta il sogno non ancora sfiorito, Brooke, infatti, svela il punto d’arrivo, la frustrazione nascosta dietro la vita apparentemente frenetica e i progetti mai portati a termine.
Brillante, autoironica e pungente, Greta Gerwig (che interpreta Brooke) è la stella del film, nonché del cinema indipendente americano del momento, già vista in Frances Ha, film dello stesso regista Noah Baumbach e a mio parere più riuscito di questo.
Pezzo forte della mia piccola selezione – che non per niente occupa difatti l’ultimo e il più importante spazio di questa breve rassegna – è Room, adattamento cinematografico del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue ispirato al caso Fritzl.
Joy e Jack, mamma e figlio, vivono in un capanno nel giardino della casa del ‘Vecchio Nick’.
Il capanno è chiuso da una porta blindata il cui codice solo Nick conosce.
Joy vive in quella stanza senza uscita da sette anni. Jack da cinque, ovvero da quando è venuto al mondo.
Con Jack che ci tiene per mano, entriamo nella ‘Stanza’, l’unico mondo che il bambino conosce e in cui, con l’aiuto della fantasia, della televisione e di sua madre, ha creato tutto ciò di cui ha bisogno. Conosciamo ‘Letto’, ‘Pianta’, ‘Armadio’, e tutta una serie di oggetti chiamati per nome e con la lettera maiuscola, unici perché i soli conosciuti. Con difficoltà accettiamo che l’inferno claustrofobico in cui Jack e Joy vivono è una realtà. Ma se il bambino dai capelli lunghi è abituato a questa realtà, è Joy a non essere abituata, lei che ha conosciuto l’esterno, il mondo, quello vero. Ed è lei che cercherà in tutti i modi una via di fuga, per liberarli e far conoscere a suo figlio la vera realtà, che lui stenta a credere che esista.
Room è il mio personale vincitore di questa Festa, il film che più mi ha emozionato, impressionato, fermato il cuore e il fiato. Provo anche una certa difficoltà a scriverne, a trasformare in parole le sensazioni che mi ha trasmesso. Tocca con la delicatezza di una carezza materna e la forza devastatrice di una valanga.
A completare il quadro, due interpretazioni praticamente perfette: Brie Larson – vista e amata in Short Term 12 – impersona Joy, la ragazza a cui sono state rubate la libertà e la gioventù; Jacob Tremblay è Jack, il piccolo, incredibile protagonista. Il suo sguardo ci proietta in questa inquietante storia attraverso inquadrature strette e basse che traducono non solo il punto di vista del bambino, ma anche le porzioni di immagini sottratte alla vista, le “mancanze” che Jack ha del mondo. E che si apriranno solo quando Jack inizierà a conoscerlo.
È quello che ha fatto anche questa edizione della Festa del Cinema di Roma: ha aperto il suo sguardo, mostrando distanze reali e interiori, offrendo agli occhi dello spettatore tanti spioncini – o tanti cannocchiali – su facce diverse di uno stesso mondo.