Non dovrebbe esistere che una sola etica, un solo, grande costume: conoscere a fondo le persone.

L’etichetta è una piccola dicitura che rivela i segreti delle cose: da dove vengono, cosa contengono, come vanno trattate, dove vanno smaltite. Nel caso dei vestiti, l’etichetta può essere fastidiosa. Nel caso delle persone anche. Ecco perché, soprattutto nella seconda opzione, conviene sempre tagliarla via.

Quando si tratta di umanità, non c’è etichetta che tenga. Eppure, di etichettare gli altri non ci si stanca mai: debole o forte, buono o cattivo, facile o difficile, pignolo o distratto, emotivo o imperturbabile, normale o diverso. Se, poi, si vuole enfatizzare l’eccezionalità, alla descrizione si aggiunge il “troppo”: troppo sensibile, troppo vivace, troppo timido, troppopermaloso, con troppe fissazioni. Preludio di veri e propri disastri educativi e relazionali, quel troppo è un richiamo allo standard della normalità socialmente accettato, in cui si smette di sognare e di osare, perché ci si dimentica di sé stessi fino a patologizzare la propria peculiarità.

Eppure, basterebbe poco per cambiare. Ad esempio, un con al posto di quel troppo aiuterebbe a inquadrare una caratteristica senza scambiarla per il tutto. Così in casa un bambino “monello” diventerebbe un bambino “con alcuni comportamenti sui quali lavorare”, ossia con infinite potenzialità da esplorare e tesori da mettere fuori. Allo stesso modo un adolescente “ribelle” diventerebbe un adolescente “con comportamenti ribelli” e mille domande, sogni e paure inespresse. Se si pensa al mondo della scuola, poi, questa piccola accortezza può fare tanto: definire uno studente o una studentessa grossolanamente “bes”, “dsa”, “dva” è negativamente impattante rispetto a un discorso più cauto, in cui quello stesso studente e quella stessa studentessa sono trattati come microcosmi meravigliosi (come tutti) con “bes”, con“dsa”, con “dva”, ossia con un disturbo specifico dell’apprendimento, che è solo una parte di loro, non il marchio che li accompagnerà fino al diploma. In ogni contesto: la lotta alle etichette parte dallo sforzo di cercare simboli e linguaggi nuovi. Ma spesso non si ha tempo, o cuore per i dettagli, o energia per camminare su strade secondarie e sterrate, lontane dai luoghi comuni.

Un’etichetta è comoda nella misura in cui affranca dallo sforzo di andare oltre e di cercare altro, proprio a cominciare dalle parole. Rivela una voglia insanabile di controllare le situazioni, gestirle a modo proprio, darsi conferme, forti della morale comune, del sentire diffuso. L’etichetta è un’etica piccola proprio perché appartiene alla maggioranza ufficiale, alla massa indistinta e superficiale, ne ordina rigidamente i comportamenti, ne anestetizza il pensiero critico, ne avalla i bisogni, mentre affossa i sogni di chi reclama voce oltre il “si dice”, “si pensa”, “si fa”. Anche se data in buona fede, è una dichiarazione dell’incapacità di andare oltre gli schemi, di godersi la varietà del reale, di stupirsi. Perché per le persone non esistono istruzioni per l’uso, nonostante il risparmio che ne deriverebbe in termini di tempo e fatica.

L’etichetta è anche un segno, paradossale però, perché invece di segnalare la povertà infinita di chi la affibbia e la miseria degli stereotipi, segna chi la riceve. Come in un incantesimo riuscito male, l’inadeguatezza rimbalza da chi etichetta e chi è etichettato. E ferisce, perché diventa un ruolo unico e soffocante, con buona pace delle infinite possibilità dischiuse in ogni esistenza.

Non dovrebbe esistere che una sola etica, un solo, grande costume: conoscere a fondo le persone. Bisogna strappare le tabelle e aiutare ciascuno a scrivere la propria unica, irripetibile, meravigliosa storia, nonostante ciò comporti il tempo prezioso che a volte non abbiamo. O che ci sembra di non avere. Insomma, nel protocollo del quotidiano l’unico dovere dovrebbe essere quello di tarare la mente starata dalle consuetudini, per pesare bene le parole che, facilmente e ben oltre le intenzioni, diventano destini.


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