
«La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci»
(Isaac Asimov)
Da bambino sono stato un tantino violento, era facile che venissi alle mani. Lo so, non è una confessione gloriosa per uno che, di mestiere, fa il dirigente scolastico ed è stato per tre decenni professore.
Ma tant’è: non sopportavo i prepotenti e le prepotenze e, ogni volta che mi imbattevo nei primi o assistevo alle seconde, la mia reazione scattava vulcanica e automatica. Ricordo ancora come, all’uscita da scuola o lungo la strada di casa, mollassi per terra la mia cartella per avere mani libere contro il bullo di turno, che magari manco conoscevo, che stava malmenando il debole di turno, che pure lui manco lo conoscevo.
La cosa più ingloriosa da confessare è che la vecchiaia incipiente e la sempre cosiddetta “maturità” non mi hanno cambiato un granché. Certo, sto imparando a contenere, a modulare, a incanalare la rabbia, ma il primo istinto che mi verrebbe di impulso è di picchiare un prepotente.
Che ne so, tipo un uomo (se così benignamente possiamo chiamarlo) che usa violenza domestica, che tratta la sua sposa come una sguattera, che le fa ricatti affettivi. O che le nega anche una cifra simbolica al fine di garantirle il suo diritto allo studio.
E sì.
Perché, quando sei dirigente di un CPIA, ti capita anche questo: di girare per le classi, incontrare sguardi, cogliere segnali e di portarteli a casa, di pensarci e ripensarci, e poi di portarteli anche a letto mentre dormi.
E così ho fatto un sogno che è stato un vero e proprio incubo.
C’era una nostra studentessa che, in lacrime nel corridoio della scuola, confessava ad una compagna di classe la decisione di rinunciare a partecipare al progetto Erasmus+ per il quale era stata selezionata.
Raccontava, tra la disperazione e il dispiacere, di un compagno di vita che “non mi picchia”, ma “mi tarpa le ali della libertà”.
In questa specie di incubo, aggiungeva che il sedicente “compagno” non era disposto a corrisponderle il contributo simbolico richiesto dalla Scuola: l’equivalente della quota assicurativa utile a farle vivere un’esperienza indimenticabile, per lei quasi certamente unica, e che di euro ne costa almeno mille.
Poi c’ero io che, invisibile a loro, ascoltavo e scleravo: avrei voluto prendere di petto la situazione e sbattere al muro il bullo domestico. Che tanto, già si sa, questi prepotenti fanno la voce grossa coi più deboli e all’istante si afflosciano con chi non è che “ce l’ha più lungo di loro”: semplicemente, è normale. Scrivo “normale”, aggettivo dall’uso quanto mai controverso, e penso ad esempio a un uomo che, “semplicemente”, abbia rispetto e ammirazione delle donne.
L’incubo virava sul sogno: scattava una gara di solidarietà tra compagni di classe e docenti. Tutti volevano aiutare la sventurata, altro che dieci, cinquanta o cento euro, ne avevano già trovati almeno cinquecento prim’ancora che io potessi farmi avanti per offrimi di contribuire! Lei però, la studentessa, garbatamente rifiutava, convinta che avrebbe potuto vincere da sola (ma in realtà non più sola) la sua battaglia.
Vabbè.
Naturalmente non ho picchiato nessuno nell’incubo, tantomeno nella realtà. Non ce n’è stato bisogno. Mi sono svegliato Diesse, sono corso a scuola e ho subito provveduto a pubblicare la graduatoria definitiva dei partecipanti, premurandomi di avere tutte le loro conferme.
Tiro un sospiro di sollievo: si parte! Partono tutti e tutte!
Nondimeno, tutta questa storia l’ho scritta pensando a te, adorata lettrice, studentessa, mamma, professionista, Donna; per ricordarti che il 1522 esiste davvero e che bisogna rammentarsene ogni giorno: non solo il 25 novembre.
La nostra alunna? Chissà se esiste.
Ma, se esiste, di sicuro andrà in Erasmus: a Siviglia, a maggio prossimo.
Coco Chanel: «Una donna dovrebbe essere due cose: chi e cosa vuole».
Maya Angelou:«Ogni volta che una donna si difende, senza saperlo, senza pretenderlo, difende tutte le donne».
Marie von Ebner-Eschenbach: «Una donna intelligente ha milioni di nemici: tutti gli uomini stupidi».