L’alfabeto di Dante

L’etica – dal greco èthos, abitudine, comportamento – riguarda il modo di essere e comportarsi degli uomini, in rapporto a se stessi e agli altri. Se leggessimo la Commedia con l’intento di sapere cosa debba muovere e ispirare l’etica dell’uomo, non potremmo fare a meno di partire dalle terzine poste sulle labbra di Catone, all’inizio del viaggio nel purgatorio, e di Virgilio quando ormai Dante è sulla soglia del Paradiso terrestre:

«Or ti piaccia gradir la sua venuta:

libertà va cercando, ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta». (Purg. I, vv. 70-72)

«Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto, sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno» (Purg. XXVIII, vv. 139-141)

La genesi e il compimento dell’iter purgatoriale di Dante avvengono all’insegna della libertà; una libertà che per l’uomo è «cara», come Catone sa bene avendo preferita essa stessa alla sua vita, e che Virgilio ha potuto sperimentare lasciandosi guidare dall’uso della ragione, di cui egli stesso è simbolo nel poema. Tuttavia questa libertà non è data una volta per tutte, ma rappresenta una faticosa e lenta conquista.

Non a caso il cammino lungo le sette balze della montagna purgatoriale, a cui corrispondono i sette vizi capitali (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria), è scandito dalle beatitudini evangeliche che annunciano «un modo nuovo di essere uomini» (E. Cuviller) e diventano il manifesto dell’etica cristiana. Ad ogni girone del secondo regno, Dante si libera del relativo vizio fino a raggiungere quello stato di innocenza perduto che coincide con la felicità dell’Eden. In altre parole, la libertà di cui Catone e Virgilio sono simbolo, non può bastare alla salvezza se non si apre all’amore, alla rivoluzione annunciata dalle beatitudini. La poesia di Dante sembra suggerire che l’amore per la libertà si manifesta massimamente quando diventa libertà di amare.

Per correggere le loro tendenze viziose e purificarsi dalle scorie del male, le anime del purgatorio pregano e meditano su alcuni exemplum di virtù apposti ai loro vizi. Così alla superbia subentra l’umiltà, all’invidia la carità, all’ira la mansuetudine, all’accidia la sollecitudine, all’avarizia la bontà, alla gola la giustizia e alla lussuria la castità. Tutte queste virtù possono essere riassunte nella povertà di spirito propria degli umili. Se, infatti, la superbia è il primo dei vizi e quindi il più grave, di conseguenza anche l’umiltà è la virtù più necessaria. Leggiamo la descrizione dei superbi:

Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera rancura
nascere ‘n chi la vede; così fatti
vid’io color, quando puosi ben cura.
Vero è che più e meno eran contratti
secondo ch’avien più e meno a dosso;
e qual più pazienza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: ‘Più non posso’. (Purg. X, 130-139)

Coloro che in vita erano soliti andare dritti e gonfi nell’animo a causa del loro orgoglio, ora vanno curvi e rannicchiati sotto il peso di un grande masso, costretti a guardare per terra, alla «comune madre» (Purg. XI,63) che tutti abbraccia in un sentimento di umana fraternità. Il loro sguardo chino corregge l’alterigia che li spingeva a guardare gli altri dall’alto in basso. Ora essi piangono e nel pianto sembrano dire «più non posso»; le lacrime e l’essere allo stremo confessano l’umana impotenza e sono un’«epigrafe della superbia infranta» (G. Inglese).

Oggi la superbia continua ad esercitare prepotentemente la sua attrattiva. Nella nostra società essa assume il volto del narcisismo, del continuo desiderio di essere sotto i riflettori, dell’incapacità di riconoscere il valore e l’importanza dei limiti. Nascondendosi dietro una presunta e forse eccessiva autostima, si lascia che il proprio ego si gonfi a dismisura nell’illusione di evitare la propria fragilità e vulnerabilità. Lo studio della psicologia, invece, dimostra che la vera stima di sé si costruisce non evitando, ma affrontando i limiti, gli ostacoli e le difficoltà.

A livello sociale, poi, il desiderio del superbo di sentirsi sempre vincente diventa occasione per affermare il proprio comando. Ogni incontro con l’altro si trasforma in uno scontro causato dal bisogno di imporre il proprio punto di vista. Il famoso piedistallo diventa uno strumento indispensabile per poter guardare tutti dall’alto. La pratica dell’umiltà, invece, non può che portare alla concordia e alla valorizzazione di ciascuno. Dante lo aveva capito, e nel suo poema aveva voluto racchiudere l’annuncio di un’etica autenticamente umana e, perciò, divina. Come la Commedia.

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