Se io fossi diventata un bullo non avrei avuto bisogno di giustificazioni, ma ciò che ho subito mi ha fatto male e non si può prescindere da questo nemmeno se poi avessi deciso di convogliare il mio dolore nella violenza restituita ad altri. Quindi ciò che potrebbe salvare gli altri, potrebbe essere  la comprensione e il sostegno psicologico: un bullo, potrebbe essere qualcuno che precedentemente è stato una vittima di un altro bullo.

Oggi ho visto un video di un bambino bullizzato, postato dalla sua stessa madre per testimoniare, coraggiosamente aggiungerei, e sensibilizzare al fatto. Nella fattispecie questo bambino di 8 anni, affetto da nanismo, sta in macchina, piange e urla alla mamma di voler morire.
Si, hai letto bene. Dice che vuole MORIRE.
Su madre in lacrime spiega cosa gli accade a scuola ogni giorno e, con immensa forza, continua a filmare la disperazione di suo figlio.
Non cercherò di essere democratica, non parlerò con il cuore, non proverò a prendere una posizione diplomatica.
Dite un po’, siete bulli o bullizzati voi? Oppure siete complici?
Parliamo un po’ coi bulli: voi lo sapete, si, che avete un problema?
Di quale natura è tutto da scoprire, ma sicuramente, ve lo avranno già detto: siete dei deboli.
Già, perché per prendersela con qualcuno che in qualche modo reputate meno forte di voi, ci deve essere una ragione profonda, legata alla vostra psiche. Lo sapevate? Ecco, lasciatevi persuadere dal dubbio.
Provate a pensare, solamente per un secondo, che ciò che vi motiva a schernire, molestare e picchiare un altro essere umano, sia una vostra mancanza. Per esempio, che voi siate i primi a subire la stessa sorte in altri contesti; oppure che il rapporto con vostro padre o vostra madre sia conflittuale; altrimenti che abbiate la necessità di apparire “forti” perché siete pieni di insicurezze. Ce ne sarebbero mille di motivi e spesso le persone per trovare il proprio posto nel mondo utilizzano la prepotenza, verbale o fisica, senza capire che non è un posto che troveranno, ma una mancanza di personalità e, per i più fortunati, un terribile senso di colpa.
Voi genitori riuscite a capire che il fatto che vostro figlio sia un bullo, vi rende dei cattivi educatori o pensate di non avere un ruolo in questo? Lo sapete che il vostro angioletto magari colma le mancanze derivate dai vostri errori prevaricando su un altro bambino?
E sapete anche un’altra cosa, voi che vi state già mettendo sulla difensiva, cercando di sminuire la gravità della situazione? Non c’è una forma di bullismo meno grave di un’altra, per due semplici motivi: il primo è che la violenza è violenza, a qualsiasi grado, ed è sempre ingiustificata. Il secondo è che non sai mai a che livello, quella violenza, toccherà la persona su cui la applichi. Per cui… chi ti credi di essere? Cosa cazzo ti fa pensare di essere superiore al punto da poter decidere di circuire la libertà altrui? La risposta è che non puoi. NON PUOI permetterti di stare in quella posizione.
Non sei convinto? Ok allora parliamo con un bullizzato.
Eccomi qui.
Ehi bullo, lo sai come mi sono sentita quando mi hai preso in giro? Quando mi insultavi da lontano perché avevo quella che per te era una diversità?
Mi sono sentita umiliata e avevo una gran voglia di risponderti per le rime. E qualche volta l’ho fatto. Sai che hai fatto il giorno dopo? Mi hai deriso di più, insieme ai tuoi amici. E vi facevate proprio delle grasse risate. E tanto più il vostro ridere si faceva fragoroso, tanto più la mia autostima calava.
E poi, avete smesso?
Certo che no. Per voi non era abbastanza.
Quindi il giorno dopo avete preso un bel bastone e lo avete infilato nei raggi della bicicletta che mia nonna mi aveva regalato, facendomi cadere e rompendola. Io mi sono alzata da terra, ferita, più nell’animo che nel corpo. E ho reagito. Ho lanciato il mio zainetto lontano e sono andata nell’ufficio del preside, furiosa. Feci i vostri nomi. Disse che ci avrebbe pensato lui.
Sapete cosa? Non fece proprio nulla.
Ecco questo è un complice.
E la sua complicità ha portato al fatto che il giorno dopo, mentre percorrevo il vialetto della scuola tristemente appiedata, da lontano avete iniziato ad urlare e a tirarmi le mele che crescevano, stupende, sugli alberi sopra le vostre teste. Una di queste mi ha colpito alla nuca, seguita dalle vostre grida vittoriose. Io, fiduciosa che di lì a poco il preside sarebbe intervenuto, ho lasciato correre, seppur digrignando i denti dalla rabbia e da un’altra umiliazione.
E il giorno dopo vi bastava?
Sareste stati troppo umani.
Ma la mia pazienza era finita, così ho reagito con le mani: non l’avessi mai fatto. Uno di voi decise che avessi esagerato. E mi colpì, forte, al petto. Feci 2 passi indietro e 3 avanti, e lo spinsi, senza successo. Ricevetti altri 3 colpi, da più d’uno. Mi salvò la campanella.
Questo che grado di violenza è? È abbastanza? No?
Il giorno dopo percorrere quel vialetto per me era un concentrato di paura, perché sapevo che loro erano lì, ad aspettarmi. Continuavo a dirmi “non è giusto”. Perciò intendevo reagire ancora. E reagii. E le buscai. Ancora. Ma più forte. Cercai di scappare, arrampicandomi sopra uno di quei meli. Loro ci si misero sotto, lo scuotevano e uno di loro teneva un bastone in verticale nel punto in cui sarei dovuta cadere. Caddi. E mi ferii. Loro scapparono. La mia maglietta era sporca di sangue. Per fortuna, o per sfortuna, quel giorno avevo educazione fisica e dopo aver coperto il buco con lo scotch, mi cambiai. Per non farmi scoprire da mia madre buttai i miei vestiti di quel giorno dicendo di averli persi e venni sgridata per la mia mancanza di responsabilità.
Mi lasciai sgridare per questo, perché parlare avrebbe avuto delle conseguenze peggiori nella mia mente di 13enne.
Mi fece tutto molto male. Dappertutto stavolta. Reagii altre volte, perdendo sempre. Erano sempre 4 contro 1.
Un giorno, quando riuscii a scalfire il leader del vostro gruppo di finti potenti, la sua reazione fu diversa. Decise che dovevo pagarla “davvero”.
Sei sicura di voler continuare leggere mamma? Ogni frase che dirò da qui in poi farà più male, sarà come una forte e pesante piedata sulle spalle.
Forse dovresti fermarti qui.
Mi prese di peso e mi portò dietro un muro. Prese quei nastri a strisce rosse e bianche attaccati a un cancello, quelli che si mettono per bloccare il passaggio, e li usò per legarmi i polsi, accucciata ai porta biciclette.
Poi mi abbassò i pantaloni.
Iniziò a masturbarsi su di me e ad avvicinare il suo pene alla mia bocca, dicendomi “succhiamelo troia, vedi che poi la smetti di vestirsi da maschio”.
A turno ordinò agli altri di fare lo stesso, lo fecero tutti.
Non potevo muovermi in nessun modo in quella posizione.
Una volta finito, mi slegarono e andarono via, soddisfatti.
Io non sapevo assolutamente cosa fare.
Ero nel più assoluto dei vuoti.
I miei sentimenti assomigliavano al quadruplo di quanto di più oscuro e vergognoso e aggrovigliato si riesca a pensare.
Non riuscivo a muovermi. Eppure mi avevano slegato.
Non ricordo altro di quel giorno.
Successe così altre volte, quasi ogni giorno. E io me lo aspettavo tutti i giorni, quando percorrevo quel vialetto. Non provai più a reagire fino alla fine di quell’anno.
Né all’inizio dell’anno dopo, quando loro frequentavano la terza media e io la seconda.
Me ne stavo lì, assente. Aspettavo che finisse. Non muovevo nemmeno un muscolo.
Ero morta in quel momento.
Potevano anche non legarmeli i polsi.
Potevano anche non colpirmi per convincermi ad andare dietro quel muro.
Eppure lo facevano comunque.
E io, niente.
Un’altra volta, il leader di questo gruppo, decise che poteva anche andare oltre.
Non si masturbò soltanto sul mio corpo inerme.
Lo usò.
Non fece piano.
Ricordo perfettamente il dolore che ho provato, tutto il tempo.
“Ora ti piace eh? Ricchiona di merda!”
E più quel tempo scorreva, più mi facevo schifo. E mi sentivo sporca. Reietta.
E non reagivo.
Quando toccò all’ultimo, io lo guardai negli occhi, alzando lo sguardo solo per un attimo. Lui fece una smorfia di Dolore.
Disse “No.” E se ne andò.
Non venne più su quel vialetto ad aspettarmi.
Con gli altri, invece, tutto andò avanti così fino a poco prima degli esami.
Poi io arrivai in terza e loro andarono via dalla scuola.
Ecco bullo.
Adesso guardami. Immaginami nel volto di chi con prepotenza hai sottomesso, e smettila.
Smettila perché che io reagisca oppure no, non fa di te uno forte. Piuttosto fa di me una persona distrutta.
Che usa la violenza per comunicare perché è quella che ha imparato, che preferisce stare da sola, che non parla mai, che ha paura.
Fa di me una persona che da grande non riuscirà ad innamorarsi. Non riuscirà a fare l’amore. Perché l’amore gliel’hai rubato.
Una mano che si tendeva verso il mio volto, non era mai una carezza ai miei occhi, perché io la vedevo sempre come se fosse la tua che stava per colpirmi.
Un abbraccio tenero da dietro, non era tenero per me, era pericoloso.
Un contatto fisico per me era una minaccia.
Un parco pieno di alberi di meli, non era più bello per me.
Parlare con un adulto, era sbagliato e inutile.
Una vittima spesso pensa di essere sola al mondo e non chiede nemmeno aiuto, ve lo assicuro.
E tu, mamma del tuo figlio adorato, ti prego sta’ attenta. Perché ciò che stai leggendo non è finzione. Non è inventato.
Fai in modo che tuo figlio dica “No.”. Ma prima. Prima di essere violento.
Fai in modo che non sia un bullo mai.
Perché per ogni minuto della sua violenza su qualcuno, quel qualcuno avrà un mese di vita da recuperare. Dovrà combattere con se stesso e scegliere:”Voglio fare agli altri ciò che è stato fatto a me, o voglio reagire ed essere diverso?”.
E stai attenta mamma, perché per colpa di tuo figlio, qualcuno potrebbe scegliere la cosa sbagliata.
E potrebbe essere un’altra mamma come te a piangere e disperarsi perché il suo bambino è una vittima, è dolorante, un autolesionista, un suicida.
Mio caro bullizzato,
scommetto che tante volte hai pensato di voler essere al posto del tuo carnefice, vero?
Beh, ti capisco. Ma prova a riflettere per un secondo: se lui, al contrario di te, avesse la possibilità di scegliere, sceglierebbe di stare al tuo posto?
Bullo,
ricordatelo, forse qualcuno vorrebbe stare al tuo posto, ma ti assicuro che nessuno vorrebbe stare al mio.
Quindi sta’ attento, perché per colpa tua e di chi ti ha cresciuto, la prossima volta al mio posto potresti esserci tu.
Scegliete bene.

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Sono Virginia Di Vivo, una ragazza come tante altre. Mi piace lo sport. Da quando ho 4 anni gioco a calcio, ma ho ottenuto le mie soddisfazioni anche nel judo dove ho conquistato la cintura nera prima di rompermi le clavicole. Ho tanti interessi, per esempio suono il pianoforte, mi piace molto l’arte e la letteratura e sono innamorata della Medicina. Ho molto da studiare. Ho 26 anni, vivo a Parma, che sento come la mia città, ma sono nata in un piccolo paese in provincia di Napoli, da genitori napoletani. Tutto ciò che sono è frutto del loro lavoro e un giorno vorrei dare loro indietro tutto ciò che loro hanno dato a me. Ho un motto, che mi ha insegnato il mio migliore amico, recita: “Studio tutto il giorno, per avere tutto, un giorno”. Sono molto innamorata dell’amore (sempre “colpa” dei miei), non ho ancora mai capito se preferisco la razionalità o la filosofia. Mi piacciono le persone e cerco sempre di giustificare tutti, andando alla ricerca del perché delle cose, mi aiuta molto la logica, anche se a volte può essere limitante, però è una zona di comfort alla quale non voglio rinunciare. Questo non esclude che a volte io decida di non usarla e dedicarmi all’empatia e all’istinto, che penso siano altrettanto irrinunciabili. Spero un giorno di riuscire a metterli nel mio lavoro. Dalla seconda elementare, come mi racconta sempre mia madre, dico di voler fare “il medico del cuore”, che nel corso degli anni si è meglio definito nella figura del cardiochirurgo. Da un annetto a questa parte sono indirizzata verso la cardiochirurgia pediatrica, che a mio avviso è più interessante dal punto di vista clinico e si sposa abbastanza bene con la mia attitudine. Adoro il profumo dei libri, le camminate in montagna, il silenzio dei musei, il mio fratellone e il mio cane e dico solo queste cose perché non penso sia opportuno andare ad elenchi puntati quando si parla di ciò che si ama e in questo contesto non ci si può dilungare in descrizioni poetiche. Non saprei bene cos’altro dire di me, anche perché ci sono giorni in cui scopro cose nuove che manco sapevo!