E ti dirò chi sei
A volte la vita si misura dal prezzo di certe attese. Perché quando siamo in attesa di qualcosa, siamo immancabilmente rivolti verso qualcosa, tesi e protesi su una meta che ci spinge a camminare e, contemporaneamente, nutre il viaggio, sostiene le fatiche, lenisce le difficoltà e assiste gli imprevisti. Ad-tendere è una missione quotidiana ed esistenziale, quasi più bella del raggiungimento della cosa attesa in sé.
Ogni attesa è un esercizio di fiducia, amore e speranza verso il tempo che ci è dato e verso quello che verrà. È una finestra sul nuovo che (dicono le neuroscienze) fa particolarmente bene al cervello, rilascia ormoni positivi, predispone alla felicità che è (anche) un fatto chimico-neurale, senza che questo scandalizzi nessuno. Mettiamola così: aspettarsi qualcosa senza troppe certezze fa bene, è un esercizio di maturazione della coscienza, perché implica il rilascio del controllo la rappacificazione dovuta con l’ignoto che sempre incombe sulle nostre vite e chiede ospitalità tra i nostri calcoli e tornaconti.
“Non me l’aspettavo” può essere una manifestazione di gioia estrema o di acre sofferenza. “Non mi aspetto più nulla” può rivelare un’insana depressione, un pericoloso isolamento. O una nuova maturità? Già, a volte il segreto per soffrire di meno, soprattutto quando la causa è irrimediabilmente persa, è smettere di attendere. Ciò significa che ci sono circostanze in grado di rendere le attese trappole mortali, perché ci illuderanno fino a farci perdere tempo ed energia.
No, non tutto merita l’umanizzante, meravigliosa, vibrante tensione dell’attesa. Ed è salvifico riconoscere, ad esempio, quelle persone dalle quali il “non aspettarsi più nulla” diventa un’altissima forma di amor proprio e un importante esercizio di maturazione individuale. Perché aspettarsi qualcosa da chi non può e non vuole dar nulla, significa inevitabilmente sfracellarsi nella delusione e nel rancore ed esporsi al contagio del suo incurabile male di vivere. E si perché, se attendere resta magico, una magia altrettanto grande è correre incontro all’altro e ricolmarlo di ciò di cui ha bisogno e desiderio, magari senza saperlo. Le relazioni autentiche crescono così, nel ricambio di attese vissute e colmate, nella reciprocità insomma. Ma così non è sempre.
E allora occorre, semplicemente, mollare la presa ed esercitarsi a non attendere l’impossibile, anche quando si tratta di cose assolutamente normali, ordinarie, che non solo possono, ma devono essere date per scontate. Parlo di relazioni fondanti, familiari e amicali, nelle quali non si dovrebbero elemosinare gesti, attenzioni e scuse; non si dovrebbe restare appesi ad assurde indecisioni; non ci si dovrebbe ammalare di assenze ingiustificabili. Eppure può accadere, giacché purtroppo, come scrive Franco Arminio, “niente è nostro, nessuno può garantirci le sue cure. Chi si è lasciato se può torni a se stesso, non abbiamo altro luogo per onorare il mondo e le sue creature”.
Ecco cosa c’è in ballo nell’imparare a discernere: l’amor proprio, il ritorno al proprio sé disperso nell’attesa inutile e distorto dall’illusione di promesse non mantenute. Forse triste. Ma non quanto chi non riesce a rispondere più ad alcuna attesa di nessuno e, magari, si ammala della patologia dell’aspettarsi sempre tutto dagli altri.
“Dimmi cosa attendi e ti dirò chi sei”, dice un vecchio detto. Forse si potrebbe continuare: “dimmi cosa non sei più disposto ad aspettare e ti dirò quanto sei cresciuto”.