«Quando sapete di aver ferito qualcuno siate i primi a chiedere scusa. Non possiamo perdonare se non sappiamo di aver bisogno di perdono, e il perdono è l’inizio dell’amore»
(Madre Teresa )
«Aspetto di leggere il seguito dell’approfondimento dedicato all’argomento!»: questo il commento, una settimana fa, di una attenta e adorata lettrice. Le ho risposto telegraficamente: «E sia!» …Ed eccoci qui, nel cimento con un tema tanto sensibile quanto complicato e, immagino, vicino a non pochi di noi.
Dunque, anche questa volta partiamo dalla radice etimologica. “Tradire” deriva dal latino tradĕre, composto di “tra”, preposizione che indica movimento attraverso o oltre qualcosa, e “dāre”, verbo che significa “dare”, “consegnare”. Di conseguenza, tradĕre significa “consegnare oltre”, ovvero “consegnare a qualcuno o qualcosa”. Un significato letterale che non aveva di per sé, almeno in origine, una connotazione negativa, tant’è che in italiano da questo verbo deriva un termine nobile come “tradizione”.
Ci si è messo però di mezzo Giuda, il traditore per antonomasia, con la sua “consegna di Gesù” ai Farisei. Che a tradire non sia stato solo lui, che siano fuggiti anche tutti gli altri che oggi chiamiamo Santi Apostoli, che il tradimento di Pietro sia molto più rivoltante per come è avvenuto e per quel che ha significato, che Giuda fosse ispirato non dal desiderio di vil pecunia, ma da ideali politici, di liberazione della sua terra dall’oppressore e invasore romano, tutto questo e altro ancora non ha fatto conto. Giuda è il traditore, Pietro il primo papa. Giuda si è impiccato, Pietro ha prima pianto amaramente, poi, a modo suo, ha chiesto perdono. Traditore uno e traditore l’altro.
Ma siccome a chi scrive le complicazioni piacciono, mi e ti chiedo, caro lettore, adorata lettrice: ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? E come la mettiamo quando, per non tradire l’altro, si finisce col tradire se stessi? E se l’unico modo per restare fedeli è seguire il flusso di una corrente sovrastante? Per non tradire, si deve annegare? E cosa resta di quanto avevamo promesso se ci siamo nel frattempo persi pur di non demordere?
Va bene, è grazie a Giuda se si è fissato il giudizio comune sul tradimento come violazione di un patto, un giuramento, una promessa, un segreto, con conseguenze negative, se non devastanti, per la persona tradita. Eppure, stando al Vangelo, non è per questo che Giuda è stato condannato. In realtà, Giuda si è autocondannato perché non ha creduto alla possibilità del perdono. Ha pensato che il suo errore fosse più grande dell’Amore. Non ha sperato, si è strangolato alla corda del suo moralismo. Ha cercato una indefettibilità che, umano troppo umano, non poteva avere: e si è ucciso per sempre.
Pietro, invece, il fellone, il cacasotto, quello che si è squagliato davanti a una serva (che, in quanto tale, manco avrebbe potuto legalmente testimoniare contro di lui…), ha pianto, si è messo a nudo, si è buttato, stava affogando e ha gridato: «Signore, salvami!». Non ha creduto in se stesso, ha creduto all’Amato.
Chissà che una riflessione simile non potrebbe tornare utile a tutti, a chi crede in un Dio come a chi crede nell’Uomo. Chissà se potrebbe aiutare “vittima” e “carnefice” a trovare un nuovo equilibrio: per conoscersi a fondo, per essere autentici, per ascoltarsi veramente, per accettare i propri limiti e altri riconoscerne in comune.
Italo Calvino: «Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così».
Lao Tse: «Comprendere gli esseri umani è intelligenza, comprendere se stessi è saggezza».
Eckart Tolle: «Non sono né i miei pensieri, né le mie emozioni, né le mie percezioni sensoriali, né le mie esperienze. Io non sono il contenuto della mia vita. Sono lo spazio nel quale tutto si produce. Sono la coscienza. Sono il presente. Sono».
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