«Sì che ‘l tuo cor, quantunque può, giocondo 
s’appresenti a la turba triunfante 
che lieta vien per questo etere tondo»

(Paradiso XXII, vv.130-132)

Il canto ventiduesimo vede protagonista, nella prima parte, san Benedetto a cui fa seguito, nella seconda, l’ascesa di Dante al cielo delle Stelle Fisse.

Dopo che Beatrice, pietosa come madre con il proprio figlio, spiega a Dante la ragione del grido dei beati con cui si è chiuso il canto precedente e dopo che Benedetto ha brevemente presentato se stesso, la sua opera, la sua condizione e quella degli altri spiriti contemplanti, tra i quali sono citati Macario e Romualdo, segue la classica invettiva contro i seguaci che hanno tradito l’insegnamento del proprio fondatore: dei Benedettini in questo caso, così come dei Francescani e dei Domenicani nei canti undicesimo e dodicesimo.

L’invettiva di Benedetto è complementare a quella di san Pier Damiani e, per quanto dura, non raggiunge i toni aspri che ascolteremo direttamente dalla voce di san Pietro nel canto ventisettesimo.

Sta di fatto che i monaci, anziché dedicarsi all’ora et labora, sono paragonabili a sacchi pieni di farina marcia i quali han ridotto i monasteri in spelonche, si appropriano indebitamente delle decime a proprio beneficio e a beneficio dei propri parenti, se non per pagare le proprie concubine, e non hanno alcuna considerazione per i poveri: de hoc satis, mi pare che non ci sia bisogno di ulteriore commento.

Non appena san Benedetto tace, Dante, con la velocità con cui ritrarremmo un dito dal fuoco, si trova ad ascendere nell’ottavo cielo, quello delle Stelle Fisse, a cui, con la consueta assenza di falsa modestia, indirizza parole di vivo ringraziamento perché in esse riconosce la fonte del proprio ingegno poetico.

Beatrice, però, lo invita a guardare indietro, per considera il cammino già fatto e così il poeta – con uno sguardo che mi fa pensare a quello di Samantha Cristoforetti mentre passeggia nello spazio – può scoprire quanto piccola sia la Terra, un pianeta davvero minuscolo e dall’aspetto insignificante al cospetto della grandezza dell’universo: bene fa chi indirizza il proprio desiderio a orizzonti più ampi.

Siccome però la mia attenzione è di sovente rapita da particolari apparentemente insignificanti, la terzina che propongo alla tua riflessione è quella che leggi in esergo e che così si può tradurre: …in modo che il tuo cuore, per quanto ne sia capace, si presenti colmo di gioia alla schiera delle anime che, esultanti e trionfanti, avanzano in questo Cielo rotondo e trasparente.

E ho pensato: ma quante volte ci capita di non esultare abbastanza? per quante e quali ragioni potremmo bene-dire la Vita invece che mettere il muso? possibile si debba attendere il tempo della privazione per rimpiangere quello dell’abbondanza che non abbiamo saputo attraversare in gratitudine?

Ecco perché Beatrice raccomanda a Dante: arriva una schiera trionfante, tu fatti trovare pronto, considera il tuo cammino, ringrazia per quanto in alto ti ha portato, solleva il tuo sguardo, accendi i tuoi occhi ed esulta …con il cuore stracolmo di gioia.

Quanto vorrei che le sue parole le sentissimo rivolte a ciascuno di noi.

George Leigh Mallory: «La felicità è, dopo tutto, lo scopo della nostra vita. Non viviamo per mangiare e per fare soldi».

Charles Bukowski: «Esprimete ciò che sentite, non abbiate paura delle conseguenze, perché il tempo non fa i conti con nessuno. Amate, odiate, buttatevi a capofitto in ogni cosa che vi dia emozioni forti. Le persone sono lo spettacolo più bello del mondo. E non si paga il biglietto».

Fernando Pessoa: «Benedetti siano gli istanti, i millimetri, e le ombre delle piccole cose».