
«Il nostro cervello è fatto in modo che l’attenzione sia tanto più alta quanto più un avvenimento suscita emozioni»
(Piero Angela)
Stavamo studiando, come ogni santo giorno della nostra vita di quel tempo. Durante le sessioni, quando finalmente si interrompevano le lezioni in presenza rigorosamente obbligatorie, cambiavamo “prigione”; non ci vedevamo più ogni pomeriggio alle 15:30 all’angolo di Prada per poi andare all’università, ma alle 08:30 di ogni mattino da Dante (cioè a casa mia) e lì rimanevano, chiusi in studio, ininterrottamente fino alle 23:30. Le uniche pause erano quelle per mangiare qualcosa, non ci interrompevano mai, due macchine da guerra.
Io e il mio Alter Ego, Vincenzo al secolo, avevamo l’imbarazzante costanza delle formiche che devono procacciarsi il cibo per la stagione più dura e anche quando cadevamo sotto il peso dello sconforto, trovavamo il modo per non arrestare quel cammino assiduo, spesso impervio, decisamente accidentato.
Ricordo una sera in cui eravamo particolarmente cotti, direi sfatti, spappolati. Ci avevano fissato due esami per uno stesso giorno ed il terzo da lì a 72 ore. Il tutto all’interno di sessioni che prevedevano sempre un minimo di dieci esami nel mese. Sfido io a non trasformarsi in caterpillar, a voler fare in tempo e a non diventare caterpillar superarmati a voler fare anche bene: e noi, ahimè, conoscevamo solo quella strada.
In tempo. E bene. Punto.
Bene, quella sera decidemmo di stoppare addirittura quattro ore prima del solito. Erano le 19:30, avevamo coscienza di potercelo permettere, avremmo avuto qualche giorno fra la coppia di esami insieme e il terzo, potevamo prenderci un attimo di tregua. Ci preparammo una tisana per distendere la tensione prima di salutarci, ma fu in quell’esatto momento che mi arrivò un messaggio. Un istante lungo una vita, la tisana finita per terra a causa dello shock e poche parole:
“Vì, riapri la Sinossi, non possiamo smettere. Ci hanno anticipato l’esame. Sono tutti e tre lo stesso giorno. Ricominciamo”… e tremavo dallo stupore, dai nervi, dalla stanchezza, da tutto.
Vincenzo non fece in tempo nemmeno a fare pace con i suoi stessi neuroni, che già era corso in cucina, aveva preso scopa, paletta, secchio e strofinaccio per raccogliere i cocci della tazza che mi era caduta e il lago di tisana sul parquet. Io ero immobile ed impalata. Un palo.
Ricordo come fosse ora il movimento lento di apertura di quella Sinossi dalla copertina rossa come il sangue che versavamo su quella strada di spine. Post it, evidenziatori, appunti: “Dove eravamo rimasti?” – “A Marco, il cerchio perfetto che finisce nel punto dove inizia” – “Ok, eccolo, andiamo avanti”.
Ho pensato a tutto questo perché per ovvi motivi in questi giorni si leggono tantissime vicende relative a Piero Angela ed io e Vincenzo, durante uno di questi siparietti gloriosi, ci dicemmo, ridendo, che mentre ripetevamo una serie di cose ad alta voce sembravamo esattamente loro: Piero e Alberto Angela a SuperQuark. O meglio, non noi, ma i contenuti. Così, giocando in modo molto serio, cercammo la colonna sonora del programma televisivo di sempre e, sciorinando ciò che avevamo studiato e dovevamo essere in grado di ripetere con cognizione di causa, creammo una nota vocale. Parlavamo a turno, esponevamo i concetti con voce ludicamente impostata, la musica ci accompagnava e noi, alla fine, ridemmo davvero di gusto per aver fatto una cosa così intelligentemente cretina. Due idioti.
Due idioti che erano cresciuti con Piero Angela però, nemmeno a dirlo. Che ci stavano giocando, che lo avevano evidentemente usato come archetipo perfetto di trasmissione di un sapere e che, in un frangente, erano stati aiutati da tutto questo.
Che cosa bella poterlo ricordare. Che cosa bella poterlo raccontare: è un aneddoto qualunque, ma mi ricorda che qualcosa di così grande è appartenuto davvero ad ognuno di noi.
Dunque, mi sono anche ricordata che Piero Angela diceva che lui, per capire per primo, affrontava strade piene di insidie, tortuose, in salita e proprio in seguito a quella fatica, cercava di portare gli altri alla sua stessa comprensione, accompagnandoli su strade cosparse di rose.
Che delicata gentilezza.
Chissà che io e Vincenzo non possiamo restare capaci, nel nostro piccolo, di fare la stessa cosa nel nostro mestiere. Il sangue lo abbiamo versato e lo versiamo perché di imparare e ricercare non si finisce, le spine ci sono tutte, non mancano mai… quindi io spero che ci resti sempre anche una buona dose di rose con cui asfaltare la strada di coloro che, per incidenze di vita, si sono trovati, si trovano e si troveranno a doverci stare a sentire.
Oggi così: un ricordo, per fare la nostra parte.