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Specie se sei emigrato al Nord…

Le vacanze al Sud sono un lavoro. Per tanti motivi.

Anzitutto, ritornare al sud significa scontrarsi con una radicale ambivalenza, in cui fascino, nostalgia e repulsione giocano in misura proporzionale. In altre parole, significa sperimentare il paradosso di una bellezza incommensurabile ancora poco valorizzata: mari di acqua e mari di immondizie; campagne suggestive, ma disseminate di escrementi di cani (e maleducazione di padroni); luoghi densi di storia, ma spesso difficili da raggiungere per le pessime condizioni del manto stradale, che rallenta non di poco gli spostamenti. Mentre uno, dieci, cento giganteschi “perché?” fanno capolino nella mente. Ed è bene che restino lì.

Non è facile verbalizzare certe domande. Il ricatto è sempre dietro l’angolo: «e tu perché sei andata via invece di fare qualcosa?». Ed è fatto di parole esplicite oppure di sguardi sospetti, pesanti, sfuggenti. Allora, il lavoro del ritorno diventa ancora più complicato, perché oltre alla morsa del caldo vi è la cappa degli incontri, non sempre distesi. Con somma sorpresa, ritornando puoi scoprire che Tizia si nasconde pur di non salutare. Che Caio fatica a reggere lo sguardo mentre, obbligato da usanze e circostanze, ti saluta. Che Sempronio cambia atteggiamento sulla base di chi ha accanto, di come gli gira in quel momento. Che Nevia è seccata perché “sei stata poco insieme a lei. E già non ci vediamo mai, visto che sei lontana!”. E anche lì ti chiedi “perché?”. Ma poi devi mollare la presa. È probabile cavare qualcosa più da questioni ambientali, sociali e territoriali che da talune dinamiche relazionali.

«Valeva la pena esser venuto? Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: “Mi conoscete, lasciatemi vivere!”. Era questo che faceva paura, perché neanche tra loro si conoscevano». Anche il protagonista de “La luna e i falò” di Cesare Pavese sperimenta quanto sia aspro il ritorno alla propria terra e l’incontro con quella gente che lo aveva visto crescere, ma che ora lo tratta con ambiguità. E lo sperimenta fino al dubbio di aver sbagliato tutto: «quasi quasi vorrei non aver fatto la mia vita, poterla cambiare, dar ragione alle ciance di quelli che mi vedono passare e si chiedono se sono venuto a comprar l’uva o che cosa. Qui nel paese nessuno più si ricorda di me, più nessuno tiene conto che sono stato servitore e bastardo. Sanno che ho dei soldi. E magari c’è qualcuno che pensa a me come io pensavo alla gente del mondo, che guadagna, se la gode, va lontano».

Insomma, c’è qualcosa di particolarmente strano nel ri-tornare, a tratti più ingestibile del partire per andarsene, poiché ad essere impegnativa è la parola stessa. Nel ritorno, infatti, c’è di mezzo il tornio e il lavoro dell’artigiano, che su quella ruota mette tutto. E gira, plasma, modella, sbaglia, recupera l’imperfezione, reintegra l’errore e ricomincia. Ritornare è così: un lavoro artigianale che mette insieme chi si è diventati e chi si era quando si è partiti, l’origine e l’oggi, le ferite aperte e le conquiste. Tutto sul tornio, per fabbricare instancabilmente chi si è, chi si vuole essere, ma anche chi si è stati. Sì, anche il passato può essere risignificato, a dispetto del vittimismo. Quella vecchia discussione, quel vecchio dissapore, quella vecchia antipatia possono essere rielaborati. Certo, se si è in due l’operazione è più agevole; però non sempre si è disposti a questo, perché occorre cambiare, mettersi in discussione, decentrarsi, dare una calmata alla pretenziosità e una sferzata al narcisismo. In una parola crescere.

«Prima non mi capacitavo di cosa fosse questo crescere, credevo fosse solamente fare cose difficili. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire». Il protagonista di Pavese lo ha capito. Mi viene da dire che non c’è bisogno di andarsene per forza fisicamente dal paesino per crescere. Serve più che altro abbandonare la ristrettezza e accogliere a braccia aperte i cambiamenti, quelli propri e quelli altrui. E poi coltivare ampiezze nella mente per raccogliere vastità di pensieri, per evitare di guardare con sospetto chiunque faccia scelte “diverse” e abbia mentalità, reazioni, personalità, caratteri, occhi “diversi”.

Non è scontato, ma sul tornio c’è posto per tutto. E basta fare un giro da certi maestri ceramisti per rendersi conto che, in fin dei conti, il risultato di certe fatiche e di certe ambivalenze è pur sempre un manufatto imperfetto e prezioso, dal valore unico, esposto all’usura, al pericolo, al furto, all’incomprensione, al fraintendimento, ma sempre bellissimo.


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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)

4 COMMENTI

  1. Articolo molto profondo e di sentimenti vissuti!
    Auguro a tutti i giovani di volare alto come hanno fatto le mie meravigliose ragazze!🥰

  2. In queste tue parole mi ci sono ritrovata ripensando a quando ho lasciato la mia terra per vivere per un po’ all’estero…L’allontanamento si riflette negli occhi altrui con dinamiche che hai magistralmente descritto, non sempre facili da comprendere e da accettare quando per i più si diventa “la straniera”. Ció che c’è di positivo è che ci reinventiamo continuamente e cresciamo spaziando tra orizzonti che non pensavamo di conoscere: questa la vera bellezza.

    • Grazie cara Monica per la tua testimonianza, dalla quale traspare umanità autentica nella forma di un desiderio adulto: saper andare, crescere, migliorarsi e criticare. Un caro abbraccio

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