«E quella non ridea; ma “S’io ridessi», 
mi cominciò, “tu ti faresti quale 
fu Semelè quando di cener fessi”»

(Paradiso XXI, vv.4-6)

Giungiamo nel Cielo di Saturno, ma non ce ne accorgiamo né noi né Dante: sembra il canto del silenzio, forse perché vi sono accolti gli spiriti che furono dediti alla vita contemplativa.

Il protagonista è san Pier Damiani, già noto col nome di Pietro il peccatore, che dal monastero di Santa Maria in Porto, presso Ravenna, si trasferì in seguito nell’eremo camaldolese di Fonte Avellana, sull’Appenino, presso il monte Catria, non lontano da Firenze.

Dicevo che Dante non si avvede dell’ascesa così come, caso strano, non è consapevole dello splendore di Beatrice, che si fa più intenso, neppure riesce a udire il canto dei beati che vede quasi danzare su e giù per i gradini di una scala dorata, la quale sale in alto fino a perdita d’occhio.

Una serie di eventi passati in silenzio che fanno pensare al raccoglimento dei monasteri e che Beatrice prima e Pier Damiani dopo spiegano al poeta col ricordargli la sua condizione terrena:

Se io sorridessi, tu diventeresti tale quale divenne Semele quando fu incenerita, gli dice Beatrice, riferendosi al mito narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (III, 253 ss.).

Semele, figlia del  re di Tebe Cadmo, fu amata da Giove e da lui generò nientemeno che il dio Bacco, ma pagò la vendetta della sempre furiosa e continuamente tradita Giunone: questa le apparve sotto le sembianze della sua nutrice e la indusse a chiedere al divino amante di manifestarsi in tutta la sua gloria; Giove provò a opporsi ma alla fine cedette. Risultato: non appena Semele lo ebbe visto, fu carbonizzata e ridotta in cenere.

Insomma, Beatrice deve modulare la rivelazione della propria bellezza, i beati devono rinunciare a rendere udibile il proprio canto e Dante deve avere il tempo di adattarsi al Cielo di Saturno, divinità classica sotto il cui regno, secondo i Romani, fiorì l’età dell’oro e dell’assenza di ogni malizia. Il tutto per ribadire che Dante è solo un uomo e non deve fare il passo più lungo della gamba, ché è già tanto, troppo e sovrabbondante ciò che gli viene gratuitamente rivelato.

Ci sta. Scolastico e ridondante, ma ci sta.

Io però resto nostalgico di quel sorriso non svelato, il sorriso di Beatrice. Non so voi, ma io lo confesso: sceglierei di bruciare pur di vedere la gloria di Giove. Io forse pecco come Lucifero, ma voglio ricordare che Saturno è congiunto alla costellazione del Leone e che in tanti pensano che sia meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora.

Alt! Attenzione a darmi del nostalgico del capelluto Benito. Il motto gli è attribuito per errore. In realtà, lo si leggeva già durante la Grande Guerra, sulle rovine di una casa a Fagarè della Battaglia, in provincia di Treviso. Pare pure che risalga ai tempi del Risorgimento e, qualcuno dice, addirittura ad un antico proverbio arabo.

Per me vale la lezione di Gramsci il quale sottolinea: «la fortuna di alcuni motti come: “è meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”, fortuna particolarmente grande in chi è proprio e irrimediabilmente pecora».

E ben mi sta…

Ça va sans dire, il canto si conclude con una nuova tirata contro la corruzione ecclesiastica: san Pier Damiani accettò con riluttanza la porpora cardinalizia, al contrario dei cardinali che lo hanno seguito i quali, invece che seguire l’esempio di Pietro e Paolo, capaci di vivere di elemosina, nascondono sotto ampi mantelli le loro carni grasse. Tanto grasse che necessitano di servitù che di rietro li alzi (v.132), …che li alzino da dietro: absit iniura verbis, ognuno la interpreti come può!

Pablo Neruda: «Il trionfo del vero uomo proviene dalle ceneri dei suoi errori».

Ingrid Bergman: «Ero l’essere umano più timido mai inventato, ma dentro di me c’era un leone che non sarebbe rimasto in silenzio».

Enzo Bianchi: «Mercoledì delle ceneri. A chi le riceve è detto: I tuoi peccati davanti al Signore pesano come queste ceneri. Va in pace!».


FonteFoto di copertina: pixabay.com liberamente rivisitata da Eich.
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...