«L’arte della parola favorisce il pensiero. Cosa favorisce, allora, l’ignoranza sulla parola?»

(Eich)

La gente che conta a volte usa davvero male le parole. E usa ancora peggio la facoltà e la possibilità di rigirare la frittata. Ma perché, mi domando, si deve sprecare in maniera così grossolana la possibilità di scusarsi o fare marcia indietro? Perché umiliarsi sbagliando sull’errore già commesso? Forse perché, giustamente, se si pensa che l’umiliazione sia un valore aggiunto, per coerenza, non la si risparmia neanche a sé stessi. Effettivamente questa lettura regala addirittura un senso a tutto ciò che un senso non ha.

Il punto però, in questa riflessione che sarà volontariamente breve, non è più quanto è stato detto in politica circa la necessità di sentirsi umiliati per crescere bene, ma la via del ritorno. Chi ha ritrattato il termine, ha sì detto di averne usato uno poco felice, ma ha sottolineato che ribadisce la necessità di restare umili.

Quindi umile e umiliato sono la stessa cosa, al punto da ingenerare un possibile refuso?

Ho controllato, perché non è mai tardi per imparare.

Umiltà: dal latino  humilĭtas -atis. Qualità di ciò che è umile, non nobile, modesto. Sentimento e conseguente comportamento improntato alla consapevolezza dei propri limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé. Atteggiamento e contegno improntati a modestia e riservatezza.

Umiliazione: dal latino tardo humiliare, derivato di humĭlis “umile”. Abbassare, inchinare in segno di rispetto. Mortificare qualcuno offendendone e ledendone la personalità e la dignità, così da causare in lui uno stato, giustificato o ingiustificato, di grave disagio, di avvilimento e vergogna. Riflessivo: riconoscere la propria pochezza, i propri limiti, essere e dimostrarsi umile: chi si umilia sarà esaltato, sentenza più volte ripetuta nel Vangelo (Matteo, 23, 12; Luca, 14, 11 e 18, 14); farsi minori di quello che si è.

Bene, io forse ho da sempre troppa fiducia nei dizionari e nello specifico della Treccani, però ricordo che anche quando ho dovuto scrivere lavori ufficiali, questa era decisamente più quotata di fonti quali Wikipedia e similari. Per questo mi ci sono ancora affidata e se non commetto errori di comprensione in lettura, ciò che capisco è questo: il termine umiliazione, in etimo, deriva dal termine umile ma è relativo all’umiltà solo quando usato in forma riflessiva, parlando di sé stessi. Quando sono gli altri quelli che intendiamo umiliare ed è parlando di altri che usiamo il termine umiliazione, si tratta di ben altra faccenda.

Dunque no, sig.ra Politica, se lei ha ammesso di aver usato la parola sbagliata, non può aggiungere che, usandola, intendeva riferirsi al fatto che sia importante restare umili e  non già perché lo dico io, ma perché lo dice la lingua italiana. Qui non è più solo un problema di difetto comunicativo, qui è un problema linguistico.

Esattamente come 2+2 fa quattro senza possibilità di opinione, anche due parole che derivano una dalla radice dell’altra non significano la stessa cosa, senza possibilità di opinione.

E se a molti può essere concesso non saperlo o usare in modo improprio alcuni sostantivi, a chi ricopre certi ruoli no, non può essere consentito. Alla pedagogia e alle scienze della comunicazione nemmeno ci arriviamo se non riusciamo nemmeno a scusarci (o mettere una pezza!) usando in modo corretto la nostra lingua madre. L’italiano, serve l’italiano: saperlo usare e usarlo bene, ahimè, non è facoltativo.


FontePhoto by Kat J on Unsplash
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.