«Nessun posto è casa mia, ho pensato andando via», canta Chiara Galiazzo.

Mi risuonava nella testa questa canzone l’altro giorno, durante l’ennesimo trasloco. Mi sono tornate alla mente tante cose, mentre riempivo gli scatoloni di altrettante cose: ma quanta roba ho? Già, “la roba”. Ed è subito Verga. In fondo è “la roba” che personalizza uno spazio, nella misura in cui lo riempie, pensavo guardando gli armadi e i cassetti svuotarsi lentamente e la cucina denudarsi di tazzine e presine colorate. Pensavo la stessa cosa una settimana fa a casa di nonna, che è morta da un anno e mezzo: quelle stanze, completamente svuotate della sua roba, sarebbero risultati luoghi estranei e anonimi, se la memoria non mi avesse soccorsa con la sua carica di ricordi.

Cos’è lo spazio? Cos’è un luogo, un posto? Parole potenti. Spazio deriva dal latino “pandere”, ossia allargare, spalancare, a sua volta connesso alla radice spa- con l’idea di “tendere”, “estendere”, “distendere”. Lo spazio è quel luogo o tempo compreso tra due termini, capace di contenere i corpi, dice la Treccani. Il luogo è lo spazio che il corpo occupa, dice la medesima fonte: dunque è lo spazio appropriato, personalizzato, abitato. Per alcuni etimologisti la parola è legata dalla radice stal- all’idea di “porre”. Per cui il richiamo al posto è immediato. E il tempo?

Non è forse il tempo, oltre “la roba” in sé, a fare di uno spazio un luogo, un posto addomesticato, a permetterci sia, quando arriva il momento, di fare i pacchi e andare, sia di tornare commuovendoci pure, ma senza deprimerci perché “nulla è come prima”? Non è forse il tempo a fare della “roba”, di quella tazzina, di quella presina, di mille altre cose, qualcosa di caro, di così caro da costringerlo a seguirci in ogni trasloco? Non è forse così che le cose diventano preziose? E chi l’ha detto, poi, che non debbano esserlo! La povertà è un’altra cosa. Non sto inneggiando al possesso o al collezionismo malato: abbiamo bisogno anche di vuoto nei nostri luoghi per respirare, di gettare via ciò che non serve più per non chiuderci nel passato, per scoprire il nuovo, per ricordarci di fare posto agli altri, per evitare di crollare quando dobbiamo partire, cambiare. E ogni giorno qualche tras-loco da compiere c’è.

La stabilità è una cosa vitale e importante e chiunque ha diritto a un “posto fisso” (ben oltre la celebre ironia di Checco Zalone), a una casa cui fare ritorno sempre: «si torna sempre dove si è stati bene», canta ancora Chiara. Ma, quando è il momento, occorre fare i pacchi e andare, attraversare il non-luogo della provvisorietà, della transizione, del cambiamento, in cui si è in bilico tra gli spazi e non ci si può ancora accomodare, eppure bisogna stare. Perché è da come si abitano i non-luoghi e i non-posti che si vede come si sono abitati i luoghi e i posti di prima e come si abiteranno quelli di dopo. Perché nei non-luoghi e nei non-posti lo spazio è puro, denuda, interpella, scomoda, decostruisce col suo vuoto e chiede di far pace col proprio vuoto, col proprio irrisolto. Non c’è bisogno di mettere toppe ovunque. Non è necessario avere tutte le risposte. Così manca l’aria. Come manca l’aria in una stanza affogata di oggetti e mobili.

Ed ecco che lo spazio vive la sua vocazione e, contemporaneamente, permette a noi di viverla: tendere le braccia al futuro, estendere la capacità di contenere mondi, distendere il cuore dall’ansia delle soluzioni. Allora si è pronti. Allora qualsiasi spazio potrà essere luogo in cui incontrarsi ed incontrare, abbracciarsi ed abbracciare, lasciarsi e lasciare andare. Quando dovremo salutare i luoghi, svuotarli delle nostre cose, restituirli al vuoto più totale, sarà sempre difficile; perché i passaggi, i tras-lochi non sono mai scontati e facili. Ma se lo spazio ci avrà performati, allora riusciremo ad abitare il cambiamento e a trarne il meglio, tra lacrime e sorrisi. E ci accorgeremo che, ridendo e piangendo, avremo anche noi performato lo spazio, che non sarà più lo stesso dopo il contatto con la nostra carne. «I posti sono semplicemente persone»: Chiara ha ragione. Ancora.

Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

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FontePhotocredits: Michela Conte
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)