Un anno da ricordare. Questa pandemia ci sta insegnando tutto.

È l’occasione per essere migliori. Sicuramente è una punizione divina.

Un anno da dimenticare. Questa pandemia ci ha tolto tutto. Siamo sempre più soli.

 

È solo un complotto delle case farmaceutiche. La mascherina toglie l’ossigeno.

Ci stanno privando della libertà. Ma dai, mica si muore per un virus.

 

Ci stanno togliendo la magia della scuola. Insegnanti eroi. Bambini eroi.

Ma dobbiamo resistere. La scuola è sicura.

Poveri bambini dietro uno schermo. La didattica digitale li deprime.

Che sfortuna essere bambini di questi tempi. Senza scuola e senza nemmeno il catechismo.

 

È tutta colpa del governo. No, è colpa delle regioni.

Medici eroi. No, stanno esagerando.

L’economia deve ripartire. Non comprate online.

 

Che Natale sarà?

La rete è un comunissimo strumento di lavoro, riconducibile soprattutto alla pesca. Tessuta a maglie strette o a maglie larghe, la sua funzione è quella di trattenere qualcosa, come suggerisce quel “retinére” da cui proviene la parola. Dunque la sua utilità è indiscussa. Homo sapiens sapiens technologicus, però, difficilmente associa la rete all’antico mestiere: nell’era di internet la rete è spazio di ricerca ed espressione, di possibilità incredibili, di quel nuovo reale che è il virtuale.

Eppure, se si cambia prospettiva, in un attimo tutto cambia. Nella vita è sempre così: mettersi nei panni degli altri è un buon esercizio per allenare l’elasticità delle idee. Questa non è innata, né legata alle aperture caratteriali o al bagaglio di conoscenze ed esperienze. Essa è dovuta essenzialmente alla capacità di decentrarsi che, soprattutto quando si è molto indaffarati, rischia di inibire completamente il salto nel punto di vista altrui, nella sua sensibilità e nel suo universo di significati.

Così è per la rete che, dal punto di vista di chi resta intrappolato, diventa un pericolo da fuggire con tutte le proprie forze. E non mi riferisco solo ai pesci. Spesso ci si ingarbuglia con le parole. Spesso la possibilità di espressione offerta dalle piattaforme social toglie il velo su un uso delle stesse assolutamente improprio e su mentalità abbastanza traviate.

Si chiama retorica, arte dell’eloquenza, arte del circonloquire, ossia del fare giri di parole, girando praticamente a vuoto, come accade quando si vuole avvitare con il cacciavite sbagliato. A fronte di migliaia e migliaia di morti, di ammalati completamente isolati in ospedale e, peggio, a casa, in attesa di un cenno di attenzione da un sistema in tilt, di famiglie sul lastrico, programmi scolastici, presunti disagi infantili, filosofie e mistiche varie, complottismo, negazionismo, manifestazioni inneggianti alla libertà sono la più becera espressione della retorica più disumana. Del resto il “répere”, ossia lo “strisciare” cui taluni riconnettono il termine rete, rende bene l’idea di un pensiero basso, insidioso, velenoso, incapace di stare eretto di fronte all’altro.

L’incapacità di guardare l’altro, in realtà, è figlia dell’incapacità di guardare se stessi e le proprie paure, di chiamare per nome il proprio senso di inadeguatezza e impotenza, di ammettere una sconfitta, di fare delle rinunce, di rielaborare i propri programmi, di stare a casa, magari con i propri figli, comunque con la solitudine e le domande irrisolte che toccano tutti, devono toccare tutti. Sono segno di adultità. E invece si fa retorica, per riempire il vuoto. E ci si sente e ci si autoproclama eroi, senza motivo e senza merito.

Sono ormai convinta che, dopo la differenza tra positivi e negativi al tampone, ci sia la differenza tra connessi e disconnessi. E non alla rete, ma alla carne del reale. Perché la forza di fare retorica, soprattutto sui social, non può che essere il segno del disumano distacco da un dramma globale.

Se quell’energia fosse impiegata per re-inventarsi il quotidiano, se la retorica fosse purificata dalla potenza del logos che, per vocazione, non tesse reti che imbrigliano, ma crea legami liberanti, forse saremmo un passo avanti, pure due. E se il Natale non fosse atteso come l’isola felice del 2020, in cui dimenticarsi definitivamente del Covid-19, in cui finalmente contravvenire a tutte le regole in nome dello “stare insieme”, magari ignorato per tutto il resto dell’anno, magari sarebbe Natale già adesso. La festa della speranza di chi sa trovare la gioia nella precarietà, di chi, mentre sa che può avere di più di una povera greppia, benedice comunque la vita e si tiene stretta la greppia stessa, in un tempo nel quale non si può non prestare grata attenzione a ogni secondo di vita strappato alla morte.


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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)

4 COMMENTI

  1. Mi spiace Michela, la retorica… è tutta nelle tue parole in questo articolo. L’incapacità di porre sotto la lente del ragionamento critico, tutte le balle, le incoerenze e i dettami che questo sistema sta raccontandoci è deleteria per la nostra società. Basti comprendere come chiunque evidenzia criticità nella gestione spavalda di questa pandemia, viene subito tacciato da negazionista, termine usato con grande furbizia per il significato a cui rimanda contro chi si oppone ad una sottomissione sic et simpliciter a questo nuovo “regime”.
    Ovviamente chi lo sostiene? Chi si fa servo del neofascismo ultraliberista? Salvini? … Ma certo che no! … È il PD amico di tutti i Big finanziari e i “sognatori perduti” in un’alveo storico tradito, che inconcepibilmente, continuano a sognare radicati in un partito democratico che tutto è, fuorché Democratico e libero.

    • Mi spiace molto per questa sua interpretazione, che accolgo e rispetto, ma, ma che non riflette la natura e le intenzioni del mio scritto. Non infatti parlo di critiche costruttive e parole pensate, ma di un modo di parlare vuoto e banale, nel quale la reale sofferenza non trova cura e attenzione. Sono un’insegnante, rischio la salute ogni giorno, mentre sento chiacchiere che fanno molto male e soprattutto non portano frutti di protezione e prevenzione. Le suggerisco una cosa: può dire di non essere d’accordo, ma senza giudicare frettolosamente che “la retorica è tutta nelle mie parole”. Non sempre è opportuno valutare, a volte occorre solo o almeno prima (e opportunamente) osservare. Saluti

  2. Giusta “osservazione”. Ho spesso apprezzato i suoi articoli, questo di meno perché offre il fianco a sommarie critiche contro i cosiddetti “negazionisti”, invece è bene mettere sul piatto tutte le osservazioni. Io oggi ho avuto le prove che un ASL sta sbagliando (o peggio: sbagliando di proposito) con i tamponi rapidi e quindi tante persone del luogo risultano positive, dopo successivi e rapidi controlli di verifica, risultano negativi. Però ormai il numero nei dati statistici va a favore del tanto mediaticamente osannato “la curva dei contagiati sta salendo!” … e invece non è vero.
    Cui prodest?
    Non avere paura, sapessi in che situazione mi trovo io, eppure non temo. Mi comporto bene e mi metto nelle mani di Dio e di virologi seri, non della Bill and Melinda Gates Foundation o di quei virologi terroristi.
    Non avere paura, questo è il presente che viviamo. Alza la testa verso il cielo e non seguire cattivi maestri ma nemmeno le preoccupazioni di questo mondo.

  3. Trovo questo articolo molto realistico….. Bisogna provare sulla propria pella il rischio del contagio, il contagio stesso che ti toglie la serenità in nome di una paura che non è basata sul nulla o su uno stato di fragilità emotiva ma su una situazione reale che è quella che ogni giorno è sotto gli occhi di tutti…… Quindi quello che Michela ha scritto rispecchia in pieno la nostra realtà…. Quella difficile da accettare ma veritiera. Grazie Michela.

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