L’ambivalenza della fame
Le ingerenze fanno male. Sono fughe di gas tossici, perdite velenose, spesso senza odore e sapore, nel senso che riconoscerle non è facile. Possono essere colte soltanto a partire dagli effetti che hanno su di noi. Il problema, in realtà, sta nella parola stessa, perché ingerire è un termine ambivalente, doppio, difficile.
L’ingestione è un ingoiare, un ingurgitare per sbaglio, ignoranza o inavvertenza. Il mangiare per nutrirsi c’entra poco; di fatto la conseguenza auspicata è sempre l’espulsione, non la digestione, né tantomeno l’assimilazione. Il termine è quasi sempre legato all’universo degli incidenti domestici, soprattutto quelli che per protagonisti hanno i bambini piccoli, che possono facilmente ingerire sostanze tossiche e piccoli oggetti, mettendosi in serio pericolo.
L’ingerire, tuttavia, può avere senso intransitivo e diventare un ingerirsi, un ingresso furtivo e non autorizzato, nella vita altrui. Lo facciamo tutti, con o senza consapevolezza, con o senza amore, con o senza i modi. Certo, il punto di partenza è tutto: se mi intrometto nella vita di qualcuno con preoccupazione, posso dar fastidio, ma almeno mi resta la certezza di aver provato di tutto per lui o per lei. Non che le intenzioni salvino sempre, anzi: si sbaglia anche con la coscienza a posto. Però è già tanto poter dire di aver fatto qualcosa senza doppi fini. Poi ognuno guarda le cose in base a occhi e occhiali, alla miopia non riconosciuta, alla cecità scambiata per visione infallibile. E questo non è più un nostro problema. Ne soffriamo, ma a un certo punto occorre mollare. Servirà alla nostra stessa vista, perché la ripulirà dalla cataratta dell’illusione di poter curare una ferita senza essere feriti.
E poi c’è l’ingerenza deliberatamente ammalata di chi, semplicemente, non ha una vita, dunque si intromette in quella altrui e pretende di gestirla a vario titolo. Occorre allora smontare il piano, ricordare il valore della discrezione e l’importanza di chiedere il permesso prima di organizzare o improvvisare situazioni, fare pace con il limite che l’altro è e con il suo diritto a dire NO, inviolabile nelle relazioni autentiche. Non ci si protegge mai abbastanza da certe invadenze e da certe pretese, anzi la reazione infantile è sempre dietro l’angolo: l’offesa (postuma o preventiva), il mutismo periodico, la scenata di gelosia, la proiezione di sé su noi, il vittimismo, l’orgoglio, la negazione.
A pensarci bene il mangiare c’entra, ma sempre inteso come un fagocitare senza nutrirsi. Ingerire nella vita di qualcuno con dolo è la manifestazione più evidente di una fame inascoltata di attenzione. Ingerire per amore è il segno di un’altra fame, quella del voler aiutare, a volte esagerando. Abbiamo sempre fame di qualcosa, di relazioni autentiche sicuramente. Ma se la fame è troppa, ci si può ritrovare divorati o divoratori. O entrambi, che è più realistico: nessuno è assolutamente buono, nessuno è completamente cattivo, nessuno è infallibile. Le sfumature salvano.
Ma nelle relazioni si è (almeno) in due. E siccome accade di non poter far nulla per e nell’altro, perlomeno ci si può difendere dall’essere divorati per fame apparente e bisogno momentaneo o ingeriti così, per sbaglio, e magari espulsi come la più tossica delle sostanze, quando si voleva solo essere medicina. Possiamo essere cibo per gli altri, ma non dovremmo mai permettere di farci trattare da scarti, da voglie periodiche, da capricci di momenti famelici, da tavola imbandita alla quale sedersi dettando tempi e momenti, condizionando e pretendendo.
Alle volte occorre sparecchiare fino alle briciole, che per alcuni sono niente e per altri sono tutto (questione di vista, di occhiali, di cuore). E usare la bocca in altro modo, magari per baciare, che è sempre fame dell’altro, ma nella forma del desiderio, della gratuità, della fragilità condivisa senza colpe, dell’abdicazione alla violenza, della volontà di guarire insieme da ingerenze fatte e subite, da errori e da orrori, da indigestioni di parole e anoressie di serenità.