
Occorrono pacificazione con il passato e radicamento nel presente per camminare spediti in avanti
È un tempo profondo l’avvento. Ogni singola lampadina accesa in casa o per strada ha il potere di illuminare e amplificare i sentimenti: sotto la luce può ritrovarsi la gioia, oppure il dolore, magari per un lutto con cui è impossibile convivere, soprattutto quando intorno si fa festa. E così l’avvento, per questa capacità di acuire il senso del presente e il ricordo del passato, può essere un tempo dolcissimo per alcuni, amaro per altri.
Eppure la “venuta”, contenuta nella parola, invita all’attesa di un futuro, atteggiamento tipicamente umano sempre, ma in avvento vissuto in modo particolare: un bel dono, il ritorno dei figli lontani, la tredicesima per far quadrare i conti, un po’ di meritato riposo sono attese tipiche del periodo, comprensibili e coinvolgenti. Ma anche particolari: a ben vedere in esse si mescolano insieme memorie, certezze e speranze, passato, presente e futuro, perché un avvenire autentico lancia in avanti e, nel contempo, radica sempre più in profondità.
È paradossale nell’epoca dell’immediatezza e della continua “domanda di nuovo” attanagliante l’essere umano, che si ritrova a programmarsi senza il passato e senza il presente, vincoli scomodi, archeologia morta inconciliabile con il progresso. Non che non si debba migliorare o cambiare! Anche perché c’è del patologico in chi vive rifugiato nei ricordi o in balìa del “carpe diem”. Occorre più che altro calibrare il concetto di novità, affinché le scelte non assumano caratteri rocambolescamente avventurieri.
La parola “avventura” pure contiene in sé un “venturus”, qualcosa che verrà; ma rispetto alla parola “avvento” comunica più vivacità. Del resto ogni vita ha bisogno di un pizzico di follia svincolata dai calcoli, per non morire ingessata nei ruoli e nelle regole. Non è un invito a cercare guai o a vagabondare in eterno; sto solo dicendo che osare, inventare, creare danno linfa alla vita stessa. Bisogna solo imparare a farlo nel modo giusto. Me l’ha suggerito l’altro giorno lo specchietto retrovisore della macchina: il grande parabrezza mi mostrava l’orizzonte limpido e sereno, mentre il piccolo specchietto retrovisore mi riportava continuamente l’attimo appena trascorso, la porzione di terra appena attraversata, l’angolo di cielo appena scorto, così diverso da ciò che avevo di fronte, eppure così indispensabile per dargli senso.
Occorrono pacificazione con il passato e radicamento nel presente per camminare spediti in avanti e in tal senso l’avvento, con le sue dinamiche intrecciate di ricordo e di attesa, diventa l’occasione per affinare il nostro modo quotidiano di attendere, riallacciando il legame con la realtà ed evitando di girovagare per la storia, facendo mille cose senza stringerne tra le mani neanche una, convinti che occorra solo correre e proseguire alla cieca per assolvere una qualche missione quotidiana.
Certo, questo significa restare col fiato corto di fronte a domande aperte, fare i conti con vecchie ferite e con frammenti di esistenza non più ricomponibili per irreversibili rotture. Paradossalmente, però, ci ritroveremo protetti dalla nostra stessa storia e in ogni passo avanti l’attimo di vita appena trascorsa ci stringerà le spalle, restituendoci la stessa forza che, per primi, abbiamo investito nel non rinnegarlo, nell’accoglierlo così com’era. Non è facile, né immediato, soprattutto per chi si porta dentro sofferenze indicibili. Però è possibile, se non altro perché di questo passato e di questo presente così bisognosi di accoglienza fanno parte quei volti che danno la forza di andare avanti e di costruire un futuro solido, quegli amori che, come canta Battisti, non sono non saranno solo “un’avventura, una stella che al mattino se ne va”.
E allora buon avvento a tutti. Ogni giorno.