Attualità di un pensiero
Non è certo un caso se Antonio Gramsci è il filosofo italiano del ‘900 più tradotto e studiato al mondo negli ultimi decenni, dalle Americhe al Giappone, per la miniera di analisi condotte con estremo rigore sui meccanismi della società contemporanea e contenute soprattutto nei Quaderni del carcere, scritti dal 1929 al 1935. Nelle pagine dedicate al materialismo storico, che si può considerare una delle tante forme in cui ha preso piede la riflessione sulle rugosità del reale, fra le altre cose viene posta l’attenzione su un problema ancora oggi più che mai attuale, quello della necessità di una appropriata comunicazione scientifica per il continuo sviluppo delle singole scienze. Essa è ritenuta un problema non secondario per una società democratica, grazie al ruolo trainante assunto dalla scienza e dalle derivanti trasformazioni tecnologiche che vengono non solo ad incidere sul tessuto economico, ma anche su quello più propriamente culturale, nel senso che vengono a forgiare un tipo di mentalità; non a caso viene affrontata all’interno di un’altra ancora più attuale ed importante questione, quella relativa al ruolo delle ideologie scientifiche, cioè di quei processi di sistematica deformazione che subiscono le teorie quando vengono utilizzate per legittimare posizioni, come ad esempio quelle razziali, che non hanno nessun fondamento. Già Gramsci aveva profeticamente intuito il pericolo per la società contemporanea rappresentato da quelle che oggi chiamiamo ‘postverità’; esse diventano il traino di notizie ed informazioni false e distorte da combattere con ogni mezzo e che sono state una delle non minori cause dei vari totalitarismi e continuano ad essere una continua minaccia per la stessa democrazia.
Infatti, nelle ultime pagine del Quaderno XVIII, dal significativo titolo La scienza e le ‘ideologie’ scientifiche, dopo un’analisi delle diverse distorsioni del concetto di scienza e anche di quei processi che portano alla sua appropriazione da parte dei vari gruppi, risultano più che mai attuali tali considerazioni: “è da notare che accanto alla più superficiale infatuazione per le scienze, esiste in realtà la più grande ignoranza dei fatti e dei metodi scientifici, cose molto difficili e che sempre più diventano difficili per il progressivo specializzarsi di nuovi rami di ricerca… Contro tale infatuazione… bisogna combattere con vari mezzi, dei quali il più importante dovrebbe essere una migliore conoscenza delle nozioni scientifiche essenziali, divulgando la scienza per opera di scienziati e di studiosi seri e non più di giornalisti onnisapienti e di autodidatti presuntuosi”.
Mentre negli altri paesi europei, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, era prassi da parte dei maggiori scienziati e delle istituzioni a cui appartenevano dedicare molto spazio all’alta divulgazione scientifica (si pensi ad esempio ai vari Darwin, Pasteur, Mach, Poincaré, i Curie, Boltzmann che tenevano mensilmente degli incontri aperti al pubblico e poi raccolti nei loro Scritti popolari), in Italia solo dopo il secondo conflitto mondiale e da parte ancora di pochi si è sentito il bisogno di una corretta divulgazione scientifica; ma per la predominanza di una cultura di impronta neoidealista nell’intera società italiana è stata ritenuta un’attività complementare, di ordine inferiore e tutt’al più supplementare, senza la necessità di scuole adeguate in grado di preparare dei professionisti della comunicazione scientifica col compito di chiarirne le sempre crescenti complessità concettuali. Molte prese di posizioni ancora oggi in voga presso il grande pubblico sono il frutto della mancanza di una adeguata conoscenza delle più salienti caratteristiche dell’indagine scientifica, laddove un risultato parziale o una semplice ipotesi, ingigantiti dai mass-media, diventano a volte un dogma come diceva quasi negli stessi anni quella straordinaria figura di intellettuale russo Pavel Florenskij, oggi al centro di vari studi; Gramsci nelle carceri italiane e Florenskij nel gulag, prima di essere fucilato su espresso ordine di Stalin, arrivano a dire che si è creata una certa forma di ‘superstizione scientifica’, un cieco scientismo di natura quasi fideistica da un lato e dall’altro il rifiuto di qualsiasi verità di cui le scienze stesse sono state e sono portatrici.
E questo per Gramsci è dovuto al fatto, poi ben chiarito dalla ricca letteratura storico-epistemologica e non spiegato invece in maniera soddisfacente al pubblico proprio per la mancanza di figure di professionisti della comunicazione scientifica, che “la scienza non si presenta mai come nuda nozione obiettiva”, ma come “l’unione del fatto obiettivo con un’ipotesi o un sistema d’ipotesi che superano il mero fatto obiettivo”; per questo essa scienza subisce quei processi di appropriazione ideologica da parte dei vari gruppi sociali ed una seria comunicazione scientifica per il pensatore sardo deve fornire gli strumenti per “valutare realisticamente ciò che di concreto la scienza offre”, metterne in evidenza i limiti intrinseci, e soprattutto il carattere di “superstruttura” privilegiata assunta in un periodo come quello contemporaneo per il ruolo sempre più incisivo nel determinare processi socio-economici grazie ai prodotti tecnologici da essa favoriti.
L’idea gramsciana di scienza come superstruttura, inoltre, conserva ancora oggi tutta la sua fecondità euristica quando l’obiettivo è di comprendere la natura di quei processi che hanno portato allo sviluppo delle cosiddette tecnoscienze, dove ogni ricerca viene finalizzata e finanziata in funzione del prodotto tecnologico che è in grado di produrre per immetterlo sul mercato. Anche su questo punto la comunicazione scientifica è carente nel senso che non deve né sottovalutarle, né produrre ‘una superficiale infatuazione’ per i continui ed inevitabili processi di innovazione da esse innescati; ma deve aiutare a capire che, pur essendo necessarie alla comunità, sono l’esito di determinate scelte anche orientate ideologicamente, frutto di interessi ben consolidati. In più, pur chiarendo bene che le tecnoscienze sono il risultato comunque di sofisticate procedure e di metodi scientifici sempre più complessi che richiedono ingenti capitali, la comunicazione scientifica deve coinvolgere gli stessi tecnoscienziati con renderli consapevoli del loro essere attori socio-economico- cognitivi, con determinate responsabilità per non chiuderli nel paravento della neutralità dei risultati conseguiti. In tal modo vengono a crearsi le condizioni per una nuova alleanza fra scienza e società, per una democratizzazione crescente degli stessi processi cognitivi in atto, in quanto si viene a prendere sempre più coscienza del loro carattere veritativo e nello stesso tempo legato inevitabilmente, oggi più che mai, ad interessi di vario tipo che occorre far risaltare non certo per demonizzarli, ma per capirne le diverse dinamiche e la posta in gioco.
Gli strumenti che Antonio Gramsci ci ha dato, pur da una cella e tenendo anche presente che erano altri i suoi interessi primari, si rivelano pertanto ancora oggi strumenti in grado di capire che le scienze e la necessaria comunicazione scientifica non sono “definitive e perentorie”, ma sono “in continuo sviluppo” e frutto di quei processi di rettificazione degli “strumenti materiali che rafforzano” le nostre capacità cognitive e che creano “la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l’uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia”.