«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia, se’ tu più punito:
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».
(Inferno, XIV, vv.63-66)
Eccoci al quattordicesimo canto, ancora nel settimo cerchio, ma questa volta nel terzo girone, dove sono puniti i violenti contro Dio. Il canto è suddivisibile in due sezioni: nella prima campeggia la descrizione del bestemmiatore Capaneo, uno dei sette re che, secondo la leggenda, assediarono Tebe. La sua sfrontatezza è tale che la pioggia di falde di fuoco, che cade come neve sulle Alpi, non sembra sfiorarlo – mentre tutti gli altri dannati non fanno altro che lamentarsi cercando riparo da «l’arsura fresca» (v.42).
La vivida descrizione di Canapeo – gli esperti la definiscono “ipotiposi” – ricorda da vicino quella di Farinata degli Uberti e Dante interroga Virgilio:
«…chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ’l marturi?»
(Inferno, XIV, vv.46-48).
La risposta di Virgilio è più severa del solito: non è affatto grande, chi pecca di alterigia, e per questo la punizione di Capaneo è peggiore di quella degli altri bestemmiatori; peraltro, nessuna pena è più adeguata al furore del superbo che la sua stessa rabbia.
Si passa, dunque, alla seconda sezione del canto e il maestro illustra all’allievo l’origine dei fiumi infernali. Essi sarebbero frutto delle lacrime della statua di un vegliardo nascosta sul monte Ida, nell’isola di Creta. Si tratta di una allegoria della storia dell’umanità. Creta è indicata come centro del Mediterraneo e punto di incontro delle tre parti del mondo allora conosciute: Europa, Africa, Asia. La descrizione della statua del vegliardo, con la testa d’oro e altre parti del corpo di metalli via via meno preziosi, vuole essere una ripresentazione del regresso dall’età dell’oro ai tempi attuali, tanto che i due piedi malfermi, uno in ferro e l’altro in terracotta, sarebbero simbolo rispettivamente dell’Impero e della Chiesa.
Sta di fatto, continua Virgilio, che da quelle lacrime si formano tutti i fiumi infernali – l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte – più il lago a centro della voragine infernale, il Cocito; da quelle lacrime si forma anche il fiume Lete, lo stesso che incontreremo nell’Eden, le cui acque purificatrici permettono alle anime di dimenticare i propri peccati.
Fin qui, in estrema sintesi, i contenuti. Una breve riflessione mi sento di condividere con te quanto alla superbia di Capaneo, la cui pena non sta tanto nella pioggia di fuoco quanto nella sua disperata solitudine, nel suo doversi mantenere fedele ad un copione fatto di sprezzo e di sdegno.
In effetti, il superbo è come un masso erratico, che non può cedere ai sentimenti, non può mostrarsi debole, deve sempre e comunque occultare le sue fragilità e non può mai chiedere aiuto. Il superbo è davvero un uomo solo e povero. Un miserabile. Ma non può confessarlo a nessuno: men che meno a se stesso.
Caro lettore, adorata lettrice,
parlo per me, tu farai le tue riflessioni: a me è capitato di pensare, vivere e agire da superbo nel corso della mia esistenza. Una bella fregatura. Per fortuna, le batoste della vita ti aiutano e costringono a ridimensionarti, ma non sono così sicuro di aver ben appreso la lezione.
Eppure, trovo insuperabile Michel de Montaigne: «Anche sul trono più elevato del mondo si è pur sempre seduti sul proprio sedere».
E magari si soffre di flatulenza.
Anche l’ironia di Giorgio Manganelli mette in guardia: «In generale gli scrittori sono convinti di essere letti da Dio».
Urge Totò: «Ma mi faccia il piacere!».