
Come spiegare la folta e numerosa presenza di figure di origine ebraica che tra Ottocento e Novecento hanno dato lustro al pensiero umano
La Giornata della Memoria, sia pure tra mille difficoltà, ha trovato un preciso spazio nella vita di ognuno di noi anche se ancora non è stata pienamente metabolizzata nella coscienza civile sia a livello individuale che collettivo; e pone tra le altre sul tappeto, indirettamente, un’altra questione, non adeguatamente affrontata sul terreno storico, anche se sembra quasi scontata e secondaria nel senso che sembra ridursi apparentemente ad un mero fatto quantitativo: come spiegare la folta e numerosa presenza di personalità e figure di origine ebraica che nel tempo e soprattutto tra Ottocento e Novecento hanno dato considerevoli contributi al pensiero umano in diversi campi dal pensiero filosofico-scientifico a quello artistico e politico (ad esempio, la ‘Grande Vienna’ del secolo scorso, ma si pensi all’importante figura di Baruch Spinoza). Una prima risposta, quasi ovvia da dare, è quella di tenere presente che trova le sue radici nella stessa tradizione religiosa per il fatto di aver tenuto salde le radici di appartenenza, fatto che ha permesso in ogni posto dove le comunità ebraiche si sono insediate di continuare a riconoscersi e a distinguersi; ma una risposta del genere si può dare per ogni tipo di comunità religiosa e non solo, che si riconosce in alcuni principi e pratiche messe in atto con varie più o meno palesi forme di proselitismo.
Ma un primo punto da tenere presente come elemento fondamentale di distinzione è il fatto che quella ebraica è unica tra le religioni monoteistiche tetragona a fare del proselitismo uno dei suoi principi-cardini; è questo è dovuto probabilmente al biblico invito fatto suo in maniera strutturale da Abramo di essere profondamente se stesso e di scavare sempre di più nelle ragioni del suo essere uomo sino a produrre la rivoluzione monoteista, come Kierkegaard in diverse opere ha sottolineato, privilegio avuto direttamente dato da Dio ma da accudire e preservare attraverso la lettura diretta e continua della Legge. Tale fatto è stato una costante tipica dell’ebraismo sin dai tempi più remoti sino a tradursi specialmente in alcuni suoi filoni in una interrogazione continua per capire le ragioni di tale evento unico, per interrogarlo nelle diverse pieghe e sulle modalità atte a renderlo un fattore determinante per le comunità che in esso si riconoscevano e che non poteva essere esteso ad altri popoli.
Questo fenomeno ha prodotto nel tempo un’attitudine quasi unica nel suo genere nel generare un processo incessante di interpretazioni del Talmud e dei singoli passi; in tal modo, come ha detto Primo Levi, si costituivano delle comunità anche piccole dove accanto alla costruzione delle sinagoghe “c’era anche una biblioteca” di libri religiosi ma “frequentata da giovani, adulti e anziani” di ogni ceto. Tali ‘focolai di cultura’, anche in ampi territori abitati da altri popoli per lo più analfabeti, hanno permesso anche alle persone più povere di sentirsi coinvolte in un progetto di più ampio respiro come imparare l’alfabeto ebraico, avviare i bambini a leggere i vari libri del Vecchio Testamento, memorizzare i brani e basare i propri comportamenti sociali su dei passi ritenuti più significativi e con l’aiuto dei maestri ad avanzare ulteriori interpretazioni.
Pertanto, come dice Primo Levi nel saggio La miglior merce, “c’è una costante nell’ebraismo, operante in ogni tempo e luogo, ed è l’importanza che da secoli viene data all’educazione” soprattutto a partire dal Medioevo presso gli ebrei dell’Europa orientale, dove “l’istruzione era considerata il valore supremo della vita, la ‘miglior merce’ da portare avanti “per tutta la vita” anche se tra molte difficoltà col “commiserare gli incolti” e l’ammirare i dotti, la sola “aristocrazia riconosciuta”. La conoscenza derivata, pertanto, dalla lettura dei testi biblici era considerata una risorsa strategica per educare in modo permanente la comunità; e questo spiega la diversa preparazione di base ed il maggior livello culturale medio raggiunto da certe comunità ebraiche nel permettere una diffusione quasi non classista della conoscenza rispetto al resto della popolazione appartenente al altre etnie, quasi a confermare quello che poi Giacomo Leopardi dirà nel Dialogo di Tristano e di un amico che “dove tutti sanno poco, si sa poco”. Questo potrebbe essere il fattore, anche se non lo spiega del tutto, della presenza di molte personalità di origine ebraica che hanno dato dei contributi originali nei loro campi (ad esempio Einstein, Mahler, Freud, Proust, Schönberg, Kafka, Mann, Husserl, Schlick, Mannheim, Emmy Noether, Simone Weil, Edith Stein, Enriques, Lautman, Gödel, Bouber, Canetti, Chagall, Grossmann, Grothendieck, Hélène Metzger, Popper, Barbara McClintock solo per fare alcuni nomi); ma esse sono laiche, cioè non praticanti e anzi lontane dalla tradizione religiosa e addirittura molto critiche verso di essa anche perché poi sono pienamente inserite nelle tradizioni culturali dei paesi in cui sono nate e dove hanno operato.
Ma al di là dei paesi in cui sono cresciuti e si sono formati, c’è una cosa che le accomuna ed è il fatto che direttamente e indirettamente hanno respirato lungo il corso della loro vita questa atmosfera plurisecolare nel rendere la ‘miglior merce’ ereditata fonte di ulteriori risorse cognitive, dove il livello medio culturale raggiunto dal mondo ebraico certamente ha giocato un ruolo non secondario; e collegato a situazioni esistenziali dove l’appartenenza a tale mondo è stata la causa di persecuzioni di varia natura sino a vivere più vite da sradicati, da rifugiati e da oppressi lungo i secoli, ha permesso il sorgere e lo sviluppo di attitudini non comuni tale da affinare, più che in altri gruppi di intellettuali e non solo, quelle categorie di vita e di pensiero come il realismo ed il razionalismo, che pur appartenenti a diverse tradizioni culturali filosofico-scientifiche, si ridefiniscono e prendono più quota se alla base c’è una continua esperienza della ‘sofferenza umana’ abbinata alla libera ’creatività’ della mente, per parafrasare un’espressione di Karl Popper presente nelle prime pagine del Proscritto alla Logica della scoperta scientifica. Vivere le continue difficoltà della vita e le sue rugosità più estreme ha fatto loro prendere atto, a dirla con Edith Stein, che “raramente la storia è dalla parte della filosofia e della ragione” sino a volte a “lasciare il campo cantando” come Etty Hillesum, nel farsi “cuore pensante” dell’universo concentrazionario, e a consegnarsi nelle mani dei nazisti da parte di Hélène Metzger in nome della ragione per continuare a pensare per il dopo Auschwitz (Hélène Metzger: questa grande sconosciuta, 14 maggio 2017 e Hélène Metzger, vittima della Shoah, 27 gennaio 2021).
Si può dire, grazie alle riflessioni di Hélène Metzger e dello stesso Primo Levi, che le comunità ebraiche hanno tramutato le secolari difficoltà incontrate in vere e proprie risorse cognitive con l’andare sistematicamente oltre il pur drammatico fatto contingente ed il puro empirismo dei dati; e nell’interrogarli per capirne il senso, li hanno più metabolizzati per farne una corazza in grado di meglio proteggersi e di approdare ad una visione del mondo aperta a diversi scenari possibili con l’arare un terreno i cui solchi si sono rivelati molto fertili in diversi campi dello scibile. Ma questo trova le sue origini nel fatto che là dove le comunità ebraiche si sono insediate, attraverso la lettura dei passi talmudici hanno messo in pratica delle modalità per essere insieme nella ‘repubblica delle menti’ per usare un’espressione di Hélène Metzger, dove ad ognuno viene riconosciuto il suo valore per quello che fa e medita senza l’imposizione di punti di vista solo perché viene affermato da un maestro o da una tendenza sia pure accettata da molti.
E questo approccio, insieme esistenziale ed ermeneutico e coltivato nei secoli per arrivare al suo apice tra ‘800 e 900 con le figure sopra citate e tante altre e proprio quando si avviò la politica dello sterminio, ha portato ad interrogarsi sul significato profondo dell’umano con l’aprirne pagine inedite come nel caso della relatività, della psicoanalisi, delle matematiche, della logica, dell’arte, della musica, ecc. Sorge pertanto la domanda, se ha senso porla: sino a che punto il loro essere eredi della bimillenaria cultura ebraica abbia determinato o meno i contenuti di pensiero espressi in opere che hanno lasciato un segno indelebile? È solo un caso se oggetto delle loro ricerche sono stati comprendere la profondità dei livelli della realtà fisica con Einstein, ‘capire i detti profondi’ ed il sottosuolo nascosto dell’uomo da parte di Freud, comprendere il senso qualitativo dei contenuti matematici da parte di Gödel con l’arrivare ai cosiddetti teoremi limitativi, scavare nella profondità della memoria con Proust e delle note e del suono con la dodecafonia, ecc.?
Ricordiamo, come ha detto spesso lo storico delle matematiche di origine ebraica Giorgio Israel e da altri esegeti, che la parola Kabbalah significa ricezione e trasmissione del messaggio divino; ed il “cultore di tale tradizione, il kabbalista, ha come scopo primario il ricordare, l’approfondire e il trasmettere il senso nascosto del messaggio divino attraverso procedimenti diversi: la lettura e rilettura del testo rivelato, la Torah, al fine di scoprirne i significati più riposti e profondi”. Tutto questo si è tradotto nei secoli in ‘miglior merce’ sino ad ergersi come un vero e proprio corpus esegetico-ermeneutico da fare da plafond culturale in diversi contesti dalla scienza all’arte; e le figure che lo hanno meglio praticato sino a sentirlo, sempre per usare un’altra non secondaria idea di Hélène Metzger, quasi un ‘a priori dello spirito’ implicito e nascosto che le ha guidate, hanno aperto non a caso capitoli inediti nel pensiero umano col darne contributi fondamentali. Nello stesso tempo sono stati messi in piedi continui ‘focolai di cultura’ di impronta comunitaria e da ‘repubblica delle menti’, non riscontrabili in altri popoli e tradizioni, che hanno elevato il livello culturale medio di base creando anzitempo i requisiti di quella che oggi chiamiamo società della conoscenza. Se tutti hanno l’occasione di sapere, si riesce a saperne di più come comunità e si trova sempre qualcuno che va al di là degli altri aprendo nuovi orizzonti culturali poi a disposizione di tutti.
Questo insieme socio-epistemico può spiegare la diversità del mondo ebraico, il suo radicarsi anche in contesti completamente diversi e forse anche il fatto di trovare nei vari posti avversità di ogni genere e nel non fare proselitismo, fattore che se da un lato ha permesso di mantenere nei secoli un elemento identitario forte ed unico, dall’altro si è rivelato un fattore che paradossalmente lo ha danneggiato a differenza delle altre religioni monoteistiche che vedono nel loro universalismo una ragione in più per affermarsi.