Metafora dell’esistenza, complessa, piena zeppa di chiaroscuri, di vita e morte che si rincorrono, di gioia e dolore che si abbracciano

Il 21 novembre di ogni anno si celebra la giornata nazionale degli alberi. È curioso: si celebra qualcosa nella fase del suo declino. Al punto da farsi venire il dubbio se si inneggi alla vita o alla morte.

Se non fosse che, nel pieno del foliage, della trasformazione autunnale che segna una morte, seppur provvisoria, un albero raggiunge la sua massima bellezza. Ed ecco che l’albero è già metafora dell’esistenza, complessa, piena zeppa di chiaroscuri, di vita e morte che si rincorrono, di gioia e dolore che si abbracciano. Solo per questo, vale la pena avere un giorno per guardare un albero, ricordarci chi siamo e festeggiare.

Le parole, tuttavia, sono sempre profonde e conducono spontaneamente a riflessioni più ampie. Si scopre, così, che “albero” e “alba” hanno in comune la luce dell’albus, che reca con sé il candore sia delle fibre legnose sotto la corteccia sia del giorno nascente. In entrambi i casi siamo di fronte all’arte nel suo formato cosmico, priva di clamore e bisognosa di attenzione, del vedere per guardare, per accorgersi. E in entrambi i casi siamo di fronte all’energia della vita che si solleva, si innalza, cresce, come suggerito dalla radice sanscrita ardh-.

Ma questa vita fa anche crescere, dona vita a propria volta, come ricordato dalla radice indoeuropea urv-, poi urb- e infine arb-, in una seconda ipotesi etimologica. Del resto, non basta essere vivi per trasmettere vita. Non basta esistere per far esistere. La fecondità è un circolo virtuoso, in cui la fatica dell’essere al mondo, in ogni stagione, ispira gratuità. Non pretesa di riconoscenza, di adorazione perpetua, di compensazione, di soddisfazione del proprio messianismo: solo gratuità.

La stessa della luce, che in ogni alba ci fa superare la notte.

La stessa degli alberi, che barattano il loro ossigeno con la nostra aria malsana.

La stessa dei tronchi sradicati e caduti, che restano lì nel bel mezzo di un sentiero e diventano ponti, panchine, passerelle, giochi per bambini e dimostrano che un albero può continuare ad essere una creatura generosa. Una creatura per cui, magari, lottare, per sensibilizzare e cambiare tradizioni discutibili, trasformandole in riti più sostenibili. Una creatura per cui fare chilometri, solo per andare a contemplarla, solo per passarci una giornata assieme. Una creatura di cui imparare ad avere bisogno per il cuore, non solo per la materia prima.

Oggi «abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento» (F. Arminio).


FontePhotocredits: Michela Conte
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)

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