La verità che ammicca alla menzogna
Tra gli innumerevoli motivi per godersi la visione di “Giurato Numero 2” ce n’è sicuramente uno che batte tutti gli altri: si tratta, sostanzialmente, dell’ultimo film della formidabile carriera di Clint Eastwood, mostrosacro cinematografico, egregio caratterista della recitazione e abilissimo maestro della regia.
Proprio dietro la macchina da presa, infatti, la leggenda hollywoodiana realizza una ripresa all’inizio del film inquadrando Themis, la Dea della Giustizia, che, con bilancia e glave, in una mano e nell’altra, rimanda ad una donna bendata e ai dubbi morali del protagonista Justin Kemp, incerto se confessare o meno un delitto, scagionando il presunto colpevole.
A 94 anni Eastwood sembra andare dritto al sodo, ci mostra un quadretto familiare messo subito in crisi, la fotografia è come sempre limpida nella sua oscurità, ponendo lo spettatore di fronte ad un dilemma etico nascosto nel mistero.
La sceneggiatura di Jonathan Abrams è incastrata in una tensione ascendente in cui si vuole, immediatamente, precisare che il sistema americano è basato sulla selezione dei dodici giurati, ignorando che sia proprio il migliore di questi ad essere reo dell’omicidio (nessuno spoiler).
Il manicheismo di “Giurato Numero 2” non è incentrato solo sulla lotta fra il bene e il male, ma è la verità che ammicca alla menzogna, è il prodotto senza sbavature di un testamento di grandezza che Clint Eastwood ci lascia, “con il sigaro e senza” (cit. Sergio Leone) né appello, né obiezioni.