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Sarebbe proprio bello se ogni giorno ci si fermasse un attimo di fronte al volto dell’altro

«Accanto è un posto per pochi», si dice. Ed è vero, sia perché non tutti coloro che vorremmo ci fossero prossimi, ci sono vicini, sia perché non tutti quelli che dicono di esserlo, lo sono effettivamente.

È difficile essere parte del “vicus”, del paese inteso come cerchia dei “vicini”, del microcosmo relazionale di qualcuno insomma. Il vicinato non è quello delle case, non è quello del sangue, anzi. Spesso i più lontani e più nemici sono quelli di casa nostra (cf Mt 10,36), come disse Gesù quella volta che, nel bel mezzo della sua missione si rese conto che il sangue non è garanzia di un bel niente, se i legami non sono abitati dal desiderio di costruire relazioni liberanti. Nulla è “per natura”; nulla è scontato o garantito. Prima di ribellarsi allo sfruttamento dell’uomo, la natura si ribella, silenziosamente e sottilmente, a questo uso sciocco della parola stessa, come garanzia della disponibilità di una sfera di rapporti nella quale accomodarsi e permettersi di tutto, sotto la garanzia del vincolo familiare.

Starsi vicini è un’arte, che passa dal non fare mai a nessuno ciò che non vorresti fosse fatto a te (cf Tb 4,15), come comandò Tobi, uno dei padri più teneri dell’Antico Testamento, al figlio Tobia, mentre partiva per cercare il riscatto della propria famiglia. E si, aveva capito che la cura dei più vicini abbisogna di impegno e di coraggio, perciò era partito nel viaggio in cui avrebbe pure incontrato l’amore della sua vita.

Insomma, come si dice, “amare non è guardarsi l’un l’altro, ma è guardare insieme nella stessa direzione”. In questo modo si è sicuri di starsi vicini. Eppure a me questa frase suona impropria. Per starsi veramente vicini occorre imparare a starsi di fronte, a guardarsi l’un l’altro, nell’incontro e nello scontro dei corpi, nell’incrocio delle espressioni facciali che spesso ci tradiscono, perché ci rivelano e ci smascherano.

La parola “fronte” dice tanto, col suo legame etimologico con “fervere” e “fronda” e le sue radici nel sanscrito bhrû-, con l’idea di agitarsi, tremare. Guardare in faccia qualcuno è difficile e a volte mette davvero paura; eppure occorre far pace con questa tremarella. Perché tremare di fronte all’altro significa coltivare quella sana instabilità e quel senso di mistero che ci aiutano a non appropriarci del suo cuore, a non calpestarlo, a non sottoporlo ai nostri capricci e alle nostre pretese. Quante scelte fatte limitandosi a starsi solo vicini. Quante decisioni prese nel proprio intoccabile privato senza provare un attimo a incrociare lo sguardo altrui, per lasciarsi interrogare, per lasciarsi scuotere.

«Non è bene che Adàm sia solo, voglio fargli un aiuto che gli stia di fronte» dice letteralmente il libro della Genesi il quale, più che raccontare “la creazione della donna dalla costola dell’uomo” (lettura impropria e riduttiva), differenzia sessualmente l’Adàm, lo spacca, traendone un maschio e una femmina, chiamati a contemplarsi per poter camminare fianco a fianco. Forse il paradiso è questo.

«Il volto del fratello è il Sinai da cui Dio continua a dire: tu non ucciderai» dice Emmanuel Levinas, il filosofo del volto, scioccato dalla tragedia dell’Olocausto e deciso a dare al pensiero una svolta esistenziale. Sarebbe proprio bello se ogni giorno ci si fermasse un attimo di fronte al volto dell’altro, prima di decidere, prima di pretendere. Sarebbe perlomeno utile ad evitare tante anonime, silenziose tragedie quotidiane, in cui la sensibilità dell’altro viene messa a dura prova e talvolta uccisa. Perché ci si accontenta di starsi maldestramente vicini o si crede che la vicinanza minima, del sangue e del passato, delle buone parole e delle buone intenzioni, basti. Perché si ha troppa paura di provare quella tremarella, quel brivido che stoppa la corsa e impone la sosta, insegnando il rispetto, non solo per il prossimo, ma anche per sé.


1 COMMENTO

  1. A partire da me molti dovrebbero leggere queste parole e trasferirle nella propria vita. Grazie Michela!

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