«La vita è una resistenza continua allinerzia che tenta di sabotare il nostro volere più profondo.

Chi si stanca di volere, vuole il nulla»

(Friedrich Nietzsche)

Cara amica,

ti avevo promesso sarai tornata e ti chiedo scusa se ci ho messo un po’: “sarà che io non ho quell’anima del poeta che vorrei, ma ti dico che una mia poesia mi costa, prima di cominciare a scrivere, mesi interi di vita e di dolore”.

Ogni volta che mi sono sistemata qui davanti al foglio per scriverti, poi, mi è tornato in mente quell’altro pensiero di Pavese, però, come una sentenza: ho idea tu abbia ben chiaro ciò a cui faccio riferimento, ma come il Piccolo Principe ripeteva le cose per non dimenticarle, io le riscrivo per fissarle.

Dunque, Cesare Pavese: diceva indicativamente che chi si mette a scrivere lettere, al posto di poesie, è un uomo finito.

Quindi sono morta? O è solo una possibilità legata al parere di qualcuno e non è detto debba essere così? Beh, ti confesso che anche solo l’idea esista questa possibilità non è consolante, così mi rifugio in una piccola e continua realtà: respiro.

Togliti quella faccia, lo so che quello che dico equivale ad esistere soltanto e le minestre riscaldate non ti piacciono, però ogni tanto un minimo di tolleranza puoi concedermela, nonostante tu e certi tipi di comprensione accondiscendente non siate esattamente amici. Penso che potresti premiarmi perché, pur avendo assunto io le sembianze della peggiore delle ipotesi, non rinuncio a riconoscere le fesserie che scrivo.

Come va? O forse dovrei dire, com’è? Per un fatto di fedeltà allo slang della comunicazione verbale usata nella terra che calpestavo ogni giorno, prima di poter semplicemente contare il numero di mattonelle che ho in cucina.

Di mio, ti dirò, non mi sono limitata a contarle, ho cambiato loro il colore e frattanto vedevo cambiare anche le tonalità del panorama che si staglia fuori dalle mie finestre. Sono splendide le mie finestre, sai? Il motivo principale per cui avrebbero dovuto passare sul mio cadavere prima di far acquistare questa casa a chiunque non fossi stata io: sì, come tutte le volte in cui credo in qualcosa, sono riuscita a comprarla questa casa che volli, volli e fortissimamente volli.

La mia volontà, lo sai bene, è stata capace di navigare mari in tempesta e scalare fianchi di ripidissimi monti in questa vita, tutte le volte in cui ha davvero messo in moto il suo zampino insostituibile.

Pertanto, è molto probabile che questo impulso a scriverti ancora e, soprattutto, a scegliere questa strada per parlarti, nasca da una qualche forma altra proprio di volontà. Devo fare esercizio narrativo, forse, per tornare a percepire vivo tutto quanto mi venga in mente, ricordando che sono una tecnica del mestiere di vivere e non mi sono mai servite altrui dimostrazioni per convincermi che le cose sono impossibili solo per chi accetta il limite imposto dal prefisso di quell’appellativo.

Sì, lo so, stai ridendo con me e non di me perché sono la regina di queste equazioni: te lo ricordi, vero, quando mi dicevano che, paradossalmente, il trucco dell’impossibile che prende forma alla scordata (come dicono in terra nostra, invece) nella mia vita funziona sempre e nelle altre, invece, non sempre è così? Quando mi parlavano come fossero incantesimi, tralasciando la verità che sta in quell’assioma per cui i pensieri negativi generano realtà negative e, semplicemente, io ero la dimostrazione vivente che quando vuoi i martedì diventano sabato e i tramonti diventano albe?

Diciamocela per com’è, amica mia, quando si riesce a far succedere qualcosa, dietro c’è un lavoro personale tale che: “Universo, levati!”. Quello non si muove di un millimetro se non si accorge che lo stai ardentemente desiderando e non puoi fingere sia così, perché non ti crede fino a che non lo vuoi con le viscere. E le viscere, si sa, sono fuori dal nostro controllo. Esattamente come i sentimenti, l’unica cosa di cui proprio non possiamo (né dovremmo) sentirci colpevoli.

Con questo credo ti lascerò in pace anche per questa volta. In un certo senso, sempre scriviamo qualcosa che non sappiamo: scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi. Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione.

E siccome non so dire di cosa si tratti e Calvino non può più farmi sapere se prima di andare lo ha scoperto, eclisso queste righe e poi, chissà. Non credo andrà tutto necessariamente bene, o necessariamente male. Credo che andrà come deve e come noi vorremo e faremo in modo che vada.

A presto

Calipso

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FontePhotocredits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.