«Chi riconosce gli altri è dotto.
Chi riconosce se stesso è 
saggio.
Chi batte gli altri ha 
forza fisica.
Chi batte se stesso è 
forte.
Chi è 
soddisfatto è ricco.
Chi non perde il suo centro dura»

(Lao Tze)

L’empatia è educabile, è vero, però pensiamoci.

La vita di un empatico, in quattro parole e prima di capire che di empatia si tratta: una rottura di coglioni.  Una grossa, gigante, immensa ed  infinita rottura di coglioni!

Perché, francamente, a fare poesia o a dare definizioni elegantemente scientifiche, dopo aver fatto un percorso ed aver capito, siamo bravi tutti. Sì, occhei, più o meno tutti. Ancora? Va bene, più meno, che più. Diciamo che chi sa farlo, a conti fatti, vince facile. Vogliamo provare?

Empatia: in psicologia, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo di un’altra persona. Nella critica d’arte e nella pubblicità, la capacità di coinvolgere emotivamente lo spettatore con un messaggio in cui lo stesso è portato a immedesimarsi.

Possiamo però alzarci oltre.

Diversa dal concetto di exotopia, coniato da Bachtin, con l’empatia l’operatore decontestualizza alcuni tratti dell’altrui esperienza, mantenendo valido il proprio contesto. Simula di “mettersi nelle scarpe dellaltro” ma in realtà, all’ultimo momento, “mette laltro nelle proprie scarpe”. Nell’exotopia, invece, la ricerca inizia quando, avendo cercato di mettersi all’altrui posto, ci si accorge che le sue calzature sono strette.

E la poesia?

Credetemi, potrei continuare a scrivere ancora molto e molto a lungo su questo, perché ad un certo punto ho dovuto approfondire, fosse stato anche solo per scrivere tesi che fossero un minimo accettabili; e non vi dico, da 110 e lode! Sì, certo, i numeri c’erano: il resto lo vediamo!

Ma ho dovuto studiare anche per dare un minimo di senso a quello che sto per dirvi.

Quindi, cosa stavo per dirvi? La poesia, le definizioni, le relazioni empatiche, i legami sociali… Ma anche sticazzi!

Sì, lo capisco bene che un inizio del genere non sia propriamente ortodosso e, ancor meno, porti l’idea della mia figura all’interno di un’aula di Cambridge, ma devo davvero chiedervi uno sforzo di comprensione.

Provateci un po’ voi a trascorrere 22616280 minuti, ovvero 15705 giorni, ossia 516 mesi, pari a 43 anni di convivenza forzata con chiunque, incluso il gatto nero che vi attraversa la strada, senza capire per quale dannata ragione dovete avere sempre interi condomìni di gente nel corpo, pur detestando anche solo averla attorno.

No, dico, vi sfido io a non convertirvi alla religione della misantropia!

Sono solo pochi anni che ho preso coscienza tanto di cosa stiamo parlando, quanto del perché io sia così terribilmente ed irrimediabilmente selettiva.

Il fatto è che, per esempio, l’empatico è in auto, sul sedile passeggero, il gatto nero attraversa la strada, partono le rinomate azioni e parole del caso da parte degli occupanti l’abitacolo e lui, l’empatico, tace. Intanto pensa:

– Che male ha fatto il quadrupede?

(E già qua dovrebbe farsi una domanda, posto che non ama i felini. Non che in quella domanda fosse espresso il linguaggio di S. Francesco, ma il minimo sindacale per lui, che proprio non li ama, avrebbe potuto essere infischiarsene: del resto il gatto aveva attraversato e lo avevano “deriso”, nessuno gli aveva fatto del male).

E poi parte la sensazione successiva: l’empatico si sente improvvisamente ricoperto da una pelliccia nera, ha la coda, è solo di notte al ciglio di una strada, vuole raggiungere l’altro lato dove c’è solo aperta campagna: una distesa non meglio definibile o definita di alberi perfettamente allineati, che rimandano un silenzio che supera De Andrè alla radio.

Non ha rotto le scatole a nessuno, è un felino ed è molto furbo, riesce a beccare l’istante perfetto per attraversare di corsa senza recare danno e, nonostante questo, loro devono temerlo, pensare alle peggiori disgrazie, ricorrere a non meglio specificati riti propiziatori relativi alle parti basse; lui sarà già arrivato dall’altro lato della campagna, loro, in auto, avranno percorso tutta la Salerno Reggio Calabria e staranno ancora parlando di lui.

Bene, è un felino, lo abbiamo capito. Se ne infischia della qualunque, per sua fortuna, ma sempre in una campagna totalmente buia è finito, in solitudine totale e probabilmente senza cibo, né acqua. Il tutto, mentre quegli umani sparano le peggiori idiozie e poi fanno anche finta di essere musicalmente preparati: mecojoni! Cantano De Andrè, mica Alessandra Amoroso!

– Che male avrò fatto?

Et voilà, il pensiero dell’empatico cambia il pronome. Si è fatto gatto.

Eccolo, dunque, un empatico. Per lui è sempre carnevale. Si ritrova travestito con gli abiti più impensabili, nei momenti più improponibili e pensa con la testa di quell’abito; ed è una testa non sua, ragion per cui non si può dare per assunto che quelli siano per lui pensieri immediatamente comprensibili!

Ancora una volta, in tre parole: schizofrenia portami via!

Perché, camminando “per una selva oscura, ché la dritta via era smarrita”, l’empatico non sa assolutamente cosa diavolo significhi quello che gli succede, né immagina che sia una cosa singolare. Lui conosce solo quel modo di stare al mondo, non possiede termini di paragone, non ha idea che non sia così per tutti.

È l’antica storia dei concetti che esistono grazie al loro opposto, che non sono come i concetti universali. Nel loro caso, ad esempio, si può pensare ad un rettangolo. Cosa sarà mai un rettangolo? Esiste? Lo si può toccare? Certo che no. Al più ci si può far venire in mente lo schermo di una tv, un foglio, il tavolo del salotto di casa di zia Franca. Tutto questo esiste, ma il rettangolo in sé no, non c’è.

Diverso è per il caldo, per esempio. Tanto lo si identifica quale caldo, perché si conosce il freddo; la luce, tanto la si identifica quale luce, perché si conosce il buio; la sazietà, tanto la si identifica quale sazietà, perché si conosce la fame. E così via.

Dunque l’empatico: lui non possiede termini di paragone, perché la sua patologia è inscritta nel suo DNA dacché è un embrione: assume innumerevoli personalità, uno, nessuno e centomila e non lo può capire. Vive così dacché è un bambino, una vita passata a percepire tutto, tutto, TUTTO, sempre, sempre, SEMPRE!

Tutto questo, peraltro, accade anche con le gioie degli interi condomìni che popolano il mondo e che l’empatico incontra, prima di capire che converrebbe andare a vivere in un eremo!

– Che bello, ho incontrato qualcuno felice!

#BelloNiente! Un empatico diventa talmente parte di quella felicità da sentirla prima, durante e dopo. Fino a piangerne e sentirsi scoppiare il cuore.

#ÈBellissimo! In verità è bellissimo. Ma la fatica!

E quindi, per carità, aiutatemi voi a spiegare. Posto che i numeri io li aborro, vi chiedo di compiere per me un puro atto aritmetico: moltiplicare quello che vi ho detto per ottordici, per millemila, per infinito!

Capite ora quanto possa essere sfiancate la vita di un empatico?

E badate bene, lui non si stacca mai nemmeno dalla sua, di vita: un’altra immensa botta di fortuna, da leggersi con la C maiuscola!

La morale del momento è che se l’empatico non si decide a capire il perché la sua vita funzioni così, finisce in una clinica psichiatrica.

Inizia a sentire le persone ancora prima di averle conosciute. A pelle, dice, quando ancora non sa cosa sia questo labirinto, ma almeno ha imparato ad aspettarselo.

E poi non si fida mai ciecamente delle prime impressioni: lo sa bene che le sue, in realtà, non sbagliano, ma non ce la fa a fidarsi in assenza di riscontri immediati e pratici. Del resto, non è che si possano buttare nel wc delle persone solo perché un istinto senza senso si sveglia e dice di no!

E giù di sensi di colpa, di domande, di allerta.

Cosa succede allora? Improvvisamente l’empatico capisce che ha la facoltà di attirare tanto altri empatici quanto persone totalmente prive di questa caratteristica, e sono le più pericolose. Quelle che la psicologia definisce “buchi neri”, che hanno solo bisogno di  egoistico nutrimento e succhiano linfa al prossimo, fino a fargli perdere la lucidità.

È per questo che un empatico può arrivare a detestare la compagnia: assorbe tante e tante di quelle cose che sono tutto ed il loro esatto contrario, da non riuscire sempre a farcela. Ha bisogno di ristoro. Quindi di una stanza murata: e i muri, si sa, tante cose fanno ma ancora non sanno provare emozioni.

La verità però è una: una persona siffatta viene sempre in pace. Non sempre vi chiederà come state, perché se siete trafitti, lei diventa trafitta ed è per quello che non farà domande: sa che non le gradireste in quel momento, salvo poi lasciarvi modellare dalle regole sociali, per le quali chi non chiede, è automaticamente disinteressato.

Una persona siffatta è sempre interessata, vi sente, non può farne a meno e riconosce ogni virgola: annusa la menzogna, l’imbarazzo, l’opportunismo ed anche tutti i loro opposti. Riesce, con l’istinto, a sferrare colpi da vero mentore senza lungaggini: ipso facto. Ma non vi farà mai del male, ne farebbe a sé stessa.

Ha ricevuto “il più antico sentimento dellanimo umano, che non è la paura, bensì lempatia. Prova dolore per il vostro dolore. È una benedizione e una maledizione allo stesso tempo” (Luca DAndrea).


FonteFoto di Gerd Altmann da Pixabay
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.