Dov’è Dio?
Per quanto eccellenze di teologi, cardinali e papi si affannino a raccogliere e incollare i cocci rotti della religione cristiana, l’uomo comune continua a gridare affranto: “Dov’è Dio?”, “Dove lo trovo?”.
Persino nel tempo attuale del “fanculo vengo prima io!” si ha bisogno che qualcuno benedica il mondo dissacrato dalle ostilità quotidiane della vita. Ma a cosa e chi è dovuto il successo di una religione che vanta 2,4 miliardi di aderenti su una popolazione mondiale di circa 8 miliardi?
Probabile che la furbizia della religione cristiana sia stata quella di aver distolto lo sguardo da un Dio onnisciente, onnipresente e onnipotente; di averla dirottata verso Gesù il Cristo umano e sofferente, come tutti lo vediamo, in croce.
E c’è differenza tra Gesù (quello storico) e Gesù il Cristo (quello dei miracoli, il figlio di Dio).
Inoltre è più facile essere liberati da un Dio, seppure per esigenze popolari, in apparenza da millenni, bipolare: ora cattivo ora buono; difficile abituarsi a gestite la libertà dal bene e dal male: il libero arbitrio, la capacità di fare della propria vita un miracolo o una maledizione. Sembra un regalo la consolazione dogmatica che vorrebbe la vita terrena poca cosa rispetto all’altra più generosa che ci attende dopo la morte. E lo è per tanti di noi: i più intelligenti (?) e atei preferiscono immaginare di poter rincontrare e riamare i cari deceduti. Non ci vedo differenza sostanziale.
Lo psicanalista Recalcati ha scritto che viviamo come dei Giuda, da una parte con il senso di colpa per aver tradito e mandato a “morte” i precetti del bene comune (e chi più di tutti li incarna) e dall’altra tormentati dal dubbio che i miracoli di quel Gesù il Cristo siano stati solo effetti speciali necessari alla fede più bigotta: e questo vigliaccamente ci rende più cinici, assieme innocenti e colpevoli; giustifica un ateismo o agnosticismo intransigente che non solo non vede senso nella morte ma la rende fine a se stessa.
La colpa sembra non essere più rivolta a Dio ma ricadere sull’amore umano che è fonte di sofferenza a causa della sua imperfezione: come potrebbe un essere vivente asimmetrico per natura produrre sentimenti simmetrici?
L’amore è soprattutto “rischio”, è il verbo “osare”: schiantarsi con tutto se stessi contro il muro del sospetto, dall’invidia, della cattiveria che vuole un’umanità vittima e carnefice di se stessa, senza pietas, che non risparmia l’ingenuità dei deboli; che esalta il successo economico e sociale, emarginando nell’indifferenza chi non ha le forza-violenza di prevaricare sugli altri.
Bisogna sopportare il senso di oppressione al petto che dà la realtà, farsi male.
E quando cadiamo dall’impalcatura della fede o quando cadiamo e basta dai gradini della vita senza di essa, ci ritroviamo soli come colui che non si riconosce nel mondo e non riconosce il mondo stesso: un essere privo di fondamenta etiche e culturali. Perfetti anonimi in un mondo che attribuisce, distribuisce, la personalità sociale tramite la convivenza e il riconoscimento altrui e non per meriti umani.