Abstract background. Waves of water of the river and the sea meet each other during high tide and low tide. Whirlpools of the maelstrom of Saltstraumen, Nordland, Norway

«La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare»

(Jovanotti)

Di recente, grazie ai suggerimenti di un fraterno amico nonché lettore dai gusti sopraffini, ho potuto leggere su “Avvenire” prima un articolo di Antonio Spadaro, gesuita e direttore de “La Civiltà Cattolica”, e poi la replica dello psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi, ordinario di Psicologia presso “La Sapienza”.

Oggetto del confronto: l’idea di una “teologia rapida”, proposta da Antonio Spadaro.

In un’epoca dominata dalla velocità, Spadaro suggerisce una teologia che sappia affrontare le rapide del presente, le sue turbolenze e cambiamenti. Lingiardi a sua volta riflette su come questa rapidità non significhi agire impulsivamente, ma piuttosto sintonizzarsi con i tempi moderni e le loro sfide, come l’ecoansia e la disforia.

La cosa che mi ha colpito è che l’uno e l’altro, pur partendo ciascuno dal proprio campo così specifico e, diremmo, apparentemente non accessibile ai più, discute invece, con evidente apertura mentale, di idee che a me sembrano universali e prossime a ciascuno di noi.

Non a caso Lingiardi richiama l’invito dello psicologo James Hillman a guardare fuori dalle proprie stanze e ad accogliere il mondo con tutte le sue complessità. E Spadaro, dal canto suo, sostiene che la rapidità è anche una qualità della poesia, capace di proiettare la parola nel futuro.

Ancora, Lingiardi sottolinea l’importanza di mantenere un equilibrio tra rapidità e profondità, tra azione e riflessione, per evitare la scissione psichica e promuovere una trasformazione benefica, mentre Spadaro invita la Chiesa a pensare alle onde del cambiamento e non solo alle rive di approdo, promuovendo un modo di evangelizzare aperto all’incertezza e alla convivenza.

E così, spinto dalle loro riflessioni e prendendo un po’ dall’uno un po’ dall’altro, a me piace pensare a un pensiero rapido e ripido: un pensiero, cioè, in grado di riconoscere e valorizzare l’inquietudine del nostro tempo, di misurarsi con le vertigini che si provano quando si sta per spiccare il volo e invece si ha solo la sensazione di cadere.

Perciò mi vien da dire che ci serve un pensiero non solo “rapido”, ma anche “ripido”: perché ci è richiesto di pensare con la rapidità di quando si sta cadendo e bisogna correre ai ripari per non farsi male o farsi il meno male possibile. D’altro canto, ripido è anche il tempo in cui siamo chiamati “a buttarci” o il cambiamento non arriverà.

Lingiardi acutamente osserva: «E perché rapidità e non velocità? Perché la velocità è quella dei treni che, salvo imprevisti, filano indisturbati sul loro binario. La rapidità, invece, lo conferma l’etimo latino, rapisce. Come i cambiamenti globali: afferrano, portano via. Stravolgono come rapimenti, la mitologia insegna che possono essere sequestro o estasi».

Sì, attraversiamo un tempo fin troppo veloce, così veloce che è facile sentirsi rapiti, smarriti, divisi, disorientati. In qualsiasi direzione si voglia volgere lo sguardo, si ha la sensazione che, più che con “onde del cambiamento”, si abbia a che fare con uno tsunami o un terremoto. Ma è proprio quando il mare e il sottosuolo si scuotono che hanno origine terre nuove, mondi che forse noi non riusciremo neanche a immaginare e che di sicuro mai vedremo: il che non significa né che non stiano “av-venendo” (letteralmente: “venendo incontro” a noi…) né che si debba smettere di “at-tenderli” (letteralmente: “andare incontro” a loro.

Lo sguardo del visionario e l’attesa desiderante mi sembrano due buone attitudini per cavalcare le onde rapide e ripide del nostro tempo.

Andre Gide: «L’uomo non può scoprire nuovi oceani a meno che non abbia il coraggio di perdere la vista della riva».

Antonio Spadaro: «Occorre il coraggio di vincere le paure, attraversare il mare e compiere la traversata insieme all’umanità di questo nostro tempo».

Max DePree: «Non possiamo diventare ciò che vogliamo essere, rimanendo legati a ciò che siamo».


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