
«Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perché.
I loro desideri hanno le forme delle nuvole»
(Charles Baudelaire)
Ho ripreso in mano, dopo cinque anni, Il cammino dell’uomo, di Martin Buber. È una di quelle letture che mi sento di consigliare a chiunque coltivi il desiderio di interrogarsi su se stesso, sul senso del proprio essere al mondo, sulla ricerca, mai del tutto compiuta, che ogni essere umano che voglia viversi in autenticità è chiamato a fare.
E, come già cinque anni fa, sono rimasto folgorato dalla prima pagina: «Non parlo di null’altro che dell’uomo quale veramente è, di voi e di me, della nostra vita e del nostro mondo, non di un Io in se stesso o di un Essere in se stesso».
Ho ripensato, così, al mio cammino, agli errori commessi, agli sforzi che incessantemente ho provato a produrre.
Ho sentito che Martin Buber, con quelle poche parole scritte nel lontano 1947, avesse avuto la capacità di indicare la direzione di ogni mio cimento.
Lungo tutto il mio breve tempo, leggendo e riflettendo, interrogando e interrogandomi, parlando e ascoltando, insegnando e imparando, in fondo, non ho provato a far altro che cercare l’uomo: dentro di me e di fronte a me.
Ho cercato un senso all’umano, ma non in quanto concetto astratto. Quello magari l’ho fatto in prima gioventù, quando ero stupido e acerbo. Non che ora non lo sia.
Però posso dire che, a mano a mano che le stagioni si accumulavano, ho cercato un senso per quest’uomo che sono io, per quest’uomo o questa donna che è davanti a me e che, come me, ci prova, si impegna, cade e si rialza. Cammina.
Dove voglio arrivare? Non lo so.
Ma so che ho ancora voglia di attraversare. Di portare avanti un passo alla volta. Di attendere la prossima svolta. Di lasciarmi sorprende dal panorama che verrà. Di lasciarmi guidare dalla curiosità di scoprire quel che sarà.
Perché, se posso essere del tutto sincero, è che io continuo a dire “io, io, io”: io ho provato, io ho pensato, io ho cercato. Ma la verità è un’altra: le scoperte più belle non sono mie, non sono frutto della mia ricerca.
Sono frutto dell’attesa desiderante.
Le scoperte più belle sono quelle da cui sono stato raggiunto: magari quando meno me l’aspettavo.
Forse sarà proprio questo il più bel cammino dell’uomo: un cammino che avanza quando, per un tempo indefinito, ci si sa anche arrestare. Persino smarrire.
Erling Kagge: «Qui mi ci sono già perso una volta, perciò so dove siamo».
Albert Szent-Gyorgyi: «Scoprire è la capacità di lasciarsi disorientare dalle cose semplici».
J.R.R. Tolkien: «Not all those who wander are lost / Non tutti quelli che vagano sono persi».
“Lasciarmi sorprendere dal panorama che verrà, lasciarsi sorprendere dalle cose semplici’, due delle splendide immagini che impreziosiscono il testo, inondandolo di pregnanza contenutistica.
Ho preso nota di Martin Bunker.
Grazie.
Grazie, Mimmo