Magari “buon senso q.b.”!

“Naturale” si dice di qualcosa che è autentico, non manomesso, per cui veritiero, affidabile.

Il suo contrario, “artificiale”, richiama qualcosa di arte-fatto, ossia fatto con arte e ad arte. Dunque, non spontaneo, non legato alla forza generativa della natura, racchiusa nel natus da cui il termine proviene.

La lotta tra il naturale e l’artificiale ci attanaglia.

Il naturale piace perché è prevedibile, soggetto a leggi stabilite, confermate dalla ripetitività dei fenomeni, monitorati costantemente e da tanto tempo. L’artificiale destabilizza: l’arte implicata nella sua realizzazione può deludere o, peggio, tradire, portare esiti inaspettati. Ciò la rende poco conoscibile o conoscibile solo da pochi, di certo abbastanza ingestibile da tutti.

Il bisogno di cercare nella natura legittimazione alle proprie idee può diventare una fissazione, che spinge a forzare non poco certe istanze. E mentre si definiscono alcuni amori “contro natura” e si distinguono scrupolosamente i figli “naturali” da quelli adottivi, si contribuisce non poco alla tabuizzazione di certi temi, alla stigmatizzazione di determinate situazioni e alla discriminazione di persone.

Anche quando ci si vuole giustificare per gravi mancanze, senza prendersi l’impegno di migliorare, si dice che la propria “natura” non può essere cambiata.

Per non parlare del mondo dell’infanzia, in cui la scena è contesa spesso da due fazioni di genitori: i sostenitori del naturale, in ogni aspetto della vita dei bambini e ad ogni costo, e i fan dell’innovazione. Gli uni, in genere, vivono la cosa come una battaglia personale, sentendosi in fondo superiori; gli altri si accontentano di essere genitori pratici, sbeffeggiando non poco i primi. Nel mezzo, una schiera di persone normali cerca di barcamenarsi come può, in un mondo in cui l’oggettività delle teorie scientifiche è oscurata dall’eminenza dei social, pieni zeppi di influencers che, dall’uno o dall’altro fronte, dispensano quotidianamente consigli, teorie e giudizi.

Ora, è un dato di fatto che il rapporto con la natura faccia bene, che una passeggiata rilasci ormoni buoni, che la gita fuori città domenicale ritempri non poco la psiche, che l’outdoor education cresca bambini più sani, creativi e propositivi, che alimenti biologici (o comunque il meno possibile processati) siano più salutari. È un dato di fatto anche che la vita in città sia stressante, l’esposizione prolungata agli schermi faccia male a cervello, linguaggio, occhi e mani di adulti, adolescenti e bambini, che la plastica ci stia sommergendo. Ma non si dovrebbero nemmeno tacere le conseguenze dei fondamentalismi pedagogici, dell’iperprotezione, del crescere figli in una dimensione ovattata in cui, prima o poi, irromperanno con forza tutte le cose tenute lontane.

Anche in ambito tecnologico l’ultima frontiera dell’intelligenza artificiale sta offrendo non poche occasioni di dibattito. Qui il confronto è diverso: la crociata è unilaterale, al punto da sembrare a tratti ridicola. A prendere la parola sono i fan dell’umano, i quali ricordano l’insostituibilità delle relazioni e l’importanza di continuare a pensare, nonostante le immense possibilità dischiuse da chat GPT. Una giusta e condivisibile osservazione. Una lecita preoccupazione. Un bel modo di ricordare la preziosità della persona umana e le infinite possibilità racchiuse nella sua intelligenza naturale, inimitabili persino dalla più sofisticata delle macchine.

Peccato che le crociate non abbiano mai portato a nulla. Peccato che i sermoni giudicanti, basati sul monito dei mala tempora currunt (pur con le migliori intenzioni e il gergo più accattivante), non portino ad alcun risultato, se non a impressionare quelli della propria ristretta cerchia. Mentre il resto dell’umanità, silente e inscalfibile, continua per la propria strada.

Si ha la sensazione, in effetti, che per alcuni ogni novità costituisca un’occasione per rilasciare pareri e dichiarazioni, anche senza la reale preparazione per farlo. In altre parole, che sia il computer e poi il robot, il cellulare e poi lo smartphone, i messaggi e poi le e-mail, internet e poi i social, le neuroscienze e poi l’AI, l’importante è parlare. Senza contare che chi prende la parola da un social, dovrebbe essere particolarmente attento a non demonizzare né l’algoritmo né la postmodernità tutta, poiché ne sta sfruttando in primis il funzionamento e le potenzialità. Un’incoerenza che non sfugge ai più.

Quando le vette dell’artificiale fanno girare la testa, al punto da temere lo smarrimento, serve qualcuno che dispensi consigli solidi. Qualcuno che, invece di mettere continuamente in guardia, accompagni l’umanità nel cambiamento e l’aiuti a trarre il meglio dalla tecnica che, dai tempi della ruota, del fuoco e della scrittura, scandisce l’inarrestabile evoluzione delle società. Qualcuno che si comporti come il genitore impegnato ad accompagnare un figlio alla scoperta del mondo: il continuo monito all’attenzione, al “non sporcarsi”, al “non cadere” trasmetterà solo ansia, nutrendo in lui un’enorme sfiducia verso l’ambiente, percepito come pericoloso, e verso il proprio sé, considerato incapace di affrontarlo. Ad aiutarlo realmente sarà l’esposizione guidata al mondo stesso, un calcolo realistico dei rischi, la vicinanza nel pericolo, la condivisione delle emozioni, la fiducia di lasciarlo andare, le braccia aperte per riaccoglierlo.

Ecco cosa manca nell’eterno dibattito tra naturale e artificiale: l’equilibrio. Si potrebbe dire, per rimanere in tema, l’intelligenza, quella naturale però: quella dei neuroni, quella che da australopiteco va avanti grazie all’adattamento alle circostanze cangianti, quella che si paralizza se la persona vive un perenne stato di allarme.

Ecco di cosa c’è bisogno per poter vivere serenamente una realtà ambivalente, piena di opportunità e sempre a rischio di deriva: un po’ di sano contatto con la natura del proprio cervello. Lì c’è, da sempre, il segreto dell’esistenza e della resistenza.


FontePhotocredits: Michela Conte
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)

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