
»Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio»
(Michelangelo Buonarroti)
Siamo più o meno nel 1516 ed abbiamo davanti un progetto nato circa otto anni fa. Qualcuno ha pensato a come dovrebbe essere la sepoltura di Giulo II: quattro figure più grandi della loro grandezza naturale, a collocazione rialzata. La personificazione della Vita Contemplativa, quella della Vita Attiva e poi due uomini, entrambe destinatari della rivelazione di Dio: San Paolo e Mosè.
Orbene, possiamo (vergognandoci per la superbia, ma consentendocela per una volta) fingere di chiamarci Michelangelo Buonarroti. Siamo noi quelli che hanno intanto ricevuto un pugno da un compagno di studi, per via della nostra insolenza e ne abbiamo guadagnato un naso quasi da pugile. Siamo gli stessi che solo l’anno scorso, dopo quattro anni di duro lavoro, hanno terminato l’opera che ci è stata commissionata da Papa Innocenzo III (o almeno così ci sembra di ricordare). Quel giorno del 1508 il Papa quasi ci chiese: “Mikyyyyy, potresti occuparti della Cappella Sistina?”. Il resto è storia.
Pensandoci, siamo proprio noi quelli invidiati, amati e odiati dalla gente comune, dagli artisti, dai potenti e dai pontefici: c’è anche chi dice che siamo geniali pur essendo ancora in vita (di solito certe affermazioni arrivano dopo la morte), ma noi non sappiamo goderci certi onori. Siamo scontenti in generale: certo, amiamo la poesia, siamo quasi crepuscolari in questa arte, ma restiamo permalosi, taciturni, introversi e poco socievoli; molto scossi da quella volta in cui nostro padre ci aveva preso in braccio e ci aveva fatto assistere all’impiccagione di Jacopo de’ Pazzi, come ad uno spettacolo teatrale.
Siamo quelli che hanno un innato talento per l’arte ed un’intelligenza sopraffina: abbiamo imparato ad invecchiare con il nerofumo le nostre copie di opere del passato e così abbiamo trovato moltissimi acquirenti fra i mercanti d’arte. Sappiamo vedere molto oltre, non c’è che dire. Non è certo stato un caso se abbiamo osatointervenire di nascosto sul dipinto del nostro maestro Ghirlandaio e lui non ci ha puniti ma ha detto che “l’allievo ha superato il maestro”.
Dunque, tornando ad oggi, cosa stiamo facendo? Siamo intenti a scolpire uno schiavo morente ed uno schiavo ribelle al Louvre di Parigi. Nello stesso momento ci accingiamo a realizzare la prima versione di un Mosè alto oltre due metri, ignari del fatto che fra quasi trent’anni, senza nemmeno pensare che si tratta di marmo, ne gireremo la testa torcendo dinamicamente tutto il corpo e rendendo, così, la statua l’unica sufficiente ad onorare il defunto Giulio II nella tomba, a scapito delle previste altre tre figure.
Abbiamo “partorito” un Mosè di imbarazzante bellezza e precisione, è da noi: non siamo proprio capaci di rinunciare al dettaglio e soffriamo moltissimo perché rispetto al grande risultato, sono troppo pochi coloro che guardano l’esattezza dell’infinitesimale.
Buon Dio, abbiamo trascorso un tempo infinito a vivisezionare cadaveri abbandonati dai frati del Santo Spirito per imparare l’anatomia e poi non dobbiamo fare quello che facciamo e che troppi non vedono?
È vero, siamo misantropi e conosci della nostra grandezza: sfidiamo a viso aperto i pontefici, non abbiamo l’indifferenza divina leonardesca (e diciamocelo, per noi Leonardo è una specie di cortigiano non proprio maschio, ma ci sentiamo operai davanti ad un gran Signore, al suo cospetto) e nemmeno la voglia di vivere di Raffaello, quel personaggio a cui dicemmo sembrare un capitano con il suo corteo e non ci risparmiò la verità dicendoci che noi, invece, eravamo sempre soli come boia.
Siamo lacerati dalle nostre incoerenti passioni, ombrosi e mistici. Il nostro amore verso Cristo corrisponde a una profondità d’animo che non viene ancora compresa e piuttosto si lascia canzonare.
Certo, ci riconoscono immenso splendore, ma chissà in quanti capiranno le nostre intenzioni quando il nostro Mosè sarà pronto. È per la sepoltura di Giulio II, l’abbiamo già sottolineato, ma che ironia! Ci ricordiamo che noi e lui ci siamo molto stimati ma mai sopportati? Che a lui, Papa, abbiamo dovuto ricordare che poteva comprare il nostro tempo, ma non la nostra mente?
E quali saranno queste intenzioni? Beh, intanto approfittando proprio della scarsa attenzione dei molti, potremmo scolpire nella barba di Mosè il volto di quella donna che si vocifera essere l’amante del grande Papa sepolto e poi non mancheremo di sfidare l’occhio superficiale del mondo. L’avambraccio di Mosè avrà scolpito nel marmo il muscolo tirato di ogni uomo che tende ad alzare il mignolo, esattamente come Mosè farà… siamo presuntuosi, ma staremo a vedere quanta ammirazione riusciremo a scatenare nei pochi attenti che si accorgeranno di tanta maniacale precisione che, confessiamolo, corrisponde ad altrettanta maniacale conoscenza.
Non sappiamo se mai qualcuno comprenderà la nostra propensione a vivere come barboni, scevri dal piacere di concederci qualunque sfizio e nutrire poi quella profonda contraddizione in petto che ci fa dare tutti noi stessi per accontentare le continue richieste di coloro che, tanto vicini a noi, non fanno che disprezzarci.
Probabilmente moriremo possedendo un patrimonio difficilmente stimabile, lasceremo la nostra anima a Dio, il corpo alla terra e la nostra roba ai parenti più prossimi: nondimeno di noi resterà il mito, probabilmente penseranno anche di trafugare la nostra salma ed onorarla con un doppio funerale, ma alla fine qualcuno dirà una parte della verità. Siamo avari, ma facciamo pagare le nostre opere solo agli aristocratici, sebbene li serviamo con magnificenza. I poveri no, ricevono in dono il nostro lavoro, nella speranza possano guadagnare qualcosa rivendendolo.
L’altra parte della verità? Resterà nell’alea insieme al mito: bisogna andare molto oltre il visibile per scorgere la realtà. È necessario saper guardare un mignolo, il dito più piccolo della mano, per scovare l’unico movimento di cui è capace un certo muscolo dell’avambraccio e chiedersi perché sia così importante imparare a non tralasciarlo.
I particolari non sono per chiunque: coglierli significa aver l’intelligenza necessaria per cogliere l’insieme, quello vero, non quello che vedono tutti quando guardano la grandezza oggettiva davanti ai loro occhi. Lo è di più, lo è molto di più.
Beato colui che saprà sostare il tempo necessario per capirlo.