Le querce che circondavano il Castello di Fotheringhay proteggevano una delle più importanti dinastie reali inglesi. Fino a quel momento, il Plantageneto aveva dato lustro alla Casa di York con un atteggiamento giusto e probo, esempio per i suoi sudditi che vedevano in lui un guerriero a difesa della loro patria. Quando, nell’ottobre del 1452, Cecilia Neville diede alla luce il suo primogenito, il Duca di York organizzò un banchetto, urlando agli astanti che quel bimbo tra le sue braccia si sarebbe seduto, un giorno, sul trono d’Inghilterra. Ma i vagiti raggomitolati in lenzuola di seta lasciavano già intravedere alcune crepe nel carattere di Riccardo III. Certo, la leggenda narrata da Tommaso Moro è ricca di tratti caricaturali un po’ accentuati, ma il quadro che di lui ci ha tramandato William Shakespeare fuga ogni dubbio. Il braccio avvizzito, l’andatura claudicante e la gobba lo rendono un personaggio negativo, un uomo inaffidabile, disposto a salvaguardare la propria incolumità a discapito del benessere del popolo che rappresentava . «Il mio Regno per un cavallo», esclamò, barattando, anacronisticamente e, permettetecelo, schettinianamente, la sorte della propria madre terra per un mezzo di trasporto a quattro zampe che lo portasse lontano dalle turbolenze belliche, al riparo da sciagure sotto l’indistruttibile cupola della ricchezza.

A dispetto di quanto sostenesse un’altra illustre gobba dei sottaciuti ed omertosi segreti italiani, la buonanima di Giulio Andreotti, il potere ha sempre logorato tutti, suscitando invidia in chi non ce l’ha e paura in chi lo detiene attraverso comportamenti totalitaristici e minatori. È stato Seneca il primo a metterci in guardia dal pericolo di consegnare lo scettro nelle mani di un solo tiranno, mentre Orazio, Persio e Boezio si sono avvalsi della mitologia greca per capovolgere l’idea di un destino favorevole attorno all’apparentemente spensierata immagine dei poteri forti.

L’aneddoto più calzante, da questo punto di vista, è contenuto nell’opera perduta dello storico Timeo di Tauromenio e nelle Tusculanae disputationes di Cicerone. Secondo il racconto, infatti, Damocle vive alla corte del tiranno di Siracusa, Dionigi I. Lamentandosi, in sua presenza, di non poter disporre dell’autorità che spetta esclusivamente al sovrano, questi gli propone allora di prendere il suo posto e assaporare tale fortuna. La location è la stessa, una tavola imbandita, un succosissimo banchetto simbolo di pleonastici eccessi. Qui Damocle comincia a tastare i piaceri del potere non accorgendosi che sul suo capo pendeva una spada sostenuta da un esile crine di cavallo. Dionigi I l’aveva sistemata lì per dimostrare quanto la sua posizione non lo facesse stare tranquillo e non gli facesse gustare le bontà della cucina e la bellezza delle donne. Damocle, allora, si rese conto di possedere ciò che non si può comprare, un’umiltà che nasce dal fango e finisce nell’apprezzamento di qualcosa impregnato di duro lavoro, raggiungendo consapevolezza del Mondo attraverso quello che si è e non quello che si ha.

D’altronde, “re” non è altro che un prefisso, uno splendido incipit beneaugurante che invoglia ad assumersi colpe e meriti, onori ed oneri, in un soddisfacente stato d’animo chiamato re…sponsabilità!