
Si può forse immaginare una relazione senza rispetto della distanza e, d’altra parte, senza gesti d’attenzione?
L’altro giorno, guidando, ho visto una macchia colorata, una nuvola rosa: era un mandorlo fiorito. Se ne stava lì, tra gli alberi nudi e sporto sul guardrail, quasi con la pretesa di farsi vedere, eppure così bello e sicuro di sé da sembrare poco bisognoso di altro.
Si dice che le pretese siano segno di arroganza, e a volte è vero: quando esse sostituiscono completamente la gratuità, l’altro diventa un erogatore di servizi. Per disinnescare questo meccanismo, basta prendere una volta sola il coraggio di ribellarsi: ci si ritroverà davanti una lista di diritti, qualità, delusioni, ferite, una specie di litania ritmata a suon di ostilità. Sarà il chiaro segno della perversione di qualcosa di molto, molto normale.
Si, perché la pretesa non è un fatto negativo a priori: quel prae-tendere, ossia “tendere davanti”, suggerisce l’impossibilità di vivere un rapporto interpersonale senza l’avanzamento di cose dovute, chiare e chiarite, sempre in evidenza. Solo un’idea molto disincarnata di relazioni guarda con sospetto qualunque pretesa, puntando ad una gratuità assurda e inarrivabile.
Si può forse immaginare una relazione senza rispetto della distanza e, d’altra parte, senza gesti d’attenzione? E l’amore senza la sincerità, anche quando costa rimetterci la faccia? E un rapporto di lavoro normale senza la puntualità, di chi lavora e di chi paga? È il “Viceversa” di Gabbani, tolto il quale i legami si sfilacciano. E poi non è possibile pretendere un bel niente, nemmeno che l’altro conservi una buona idea di noi, preoccupazione in grado di togliere la salute a chi non è guarito dalla peggiore delle forme di arroganza: voler piacere a tutti, e a tutti i costi.
Quando la pretesa si ammala, si passa al pretesto. Sono pericolosi i pretesti, perché elegantemente finti, retoricamente stupefacenti e incredibilmente falsi. Di quella falsità talmente abbagliante, però, da inibire la vista dei più, che li scambieranno per lampade affidabili e ne applaudiranno la luce. Prae-texere, ossia “tessere avanti”, nel senso di adornare la realtà, coprendola di fronzoli, è l’arte di sfiorire. Assieme alle parole. Amore in primis. Poi fede, perdono, coscienza, cura, empatia. E tante, tante altre.
Sono invadente, infantile, poco chiaro e poco rispettoso, eppure l’altro dovrebbe dimostrarmi amore, perché “senza amore non siamo niente”. Ho bisogno di conferme e chiedo un parere sui miei difetti e i miei errori, sperando che chi ho di fronte sia sufficientemente debole da non dire come la pensa. Quando, invece, ciò accade, inveisco: “dov’è mai finita l’empatia?”. Sono gravemente mancante verso i miei familiari o i miei dipendenti e loro, stanchi e avviliti, si allontanano: “il perdono è un atto dovuto!”. E gli esempi potrebbero continuare.
Basterebbe, in tutte le situazioni prospettabili, ammettere l’errore, lavorare sulla logorrea, aprirsi al confronto, togliere i fronzoli e guardare la nudità delle cose e di sè. Senza pretesti, con la sola pretesa di tornare a fiorire e di aiutare a fare altrettanto. Come il mandorlo, che pretende senza pretendere. Perché non ha altra vera pretesa che tornare a splendere. Perché il freddo, l’inverno, la fatica non sono il pretesto per piagnucolare, per arrestare la vita in sé e, magari, negli altri…anzi! Sono lo stimolo ad aprire la strada a tutti, a celebrare la primavera in anticipo. Quella che sboccia nel delicato equilibrio tra pretese e gratuità, quando il desiderio della trasparenza e la pacificazione con la propria povertà vince la tentazione di sprecare tempo a cercare pretesti per coprirsi di scintillanti inutilità.