Chissà che ne sarebbe stato se Gesù Cristo lo avessimo lasciato vivere oltre i trentatré anni…

La ragione ci invita a ragionare. Si attiva a farlo per tanti motivi.  Il principale è il modo giusto per apprenderne, qualora ci fosse, il succo dell’argomento trattato, ragionandoci sopra. Si dovrebbe farlo sia dopo una lettura di un testo sia durante l’ascolto di un discorso. Nel primo caso della lettura si ha più tempo, avendo il testo a disposizione, per condividerne i contenuti oppur di confutarli. Nel secondo caso, l’ascoltare incondizionatamente non porta ad alcuna risultanza qualora venisse a mancare la minima, lecita replica. Oggi ci si domanda sul come, sul quando e sul perché, le oratorie siano di così pompose eloquenze ma che, in sostanza, non giungono a risposte soddisfacenti. Ragionare sul perché sia piovuta tanta dubbiosità nelle menti, sul conto delle prediche di certe “Oratori” di estrazioni (Politiche, ecclesiastiche, caritatevoli sotto il marchio di “O.N.L.U.S” e quant’altro di sorprendente è sulla bancarella del viver comune…), che non sempre appagano la brama, sia di liceità sia di verità.

Avviene nei casi in cui è il predicante a non voler discutere del tema che tratta e a stender la “ringhiera” tra sé e chi ascolta. Serve a che uno si “appoggi” e si rilassi durante la farraginosa lungaggine della predica che, a volte, diventa infinita e, il più delle volte, mancante di sostanza e di veridicità?

L’ascolto sarebbe prezioso se pur una concisa predica, dovesse portare a risultati chiari e ragionevoli. Ma sono le lungaggini, le opprimenti ripetizioni, e l’ascoltare senza interloquire, che l’oratoria diventa un piatto di minestra riscaldata e da lungo tempo mantenuta nella madia della persuasione. In questi casi è il fine ad esser messo in discussione poiché lo si potrebbe considerare ambiguo. È il grave dilemma che chiude i già saturi spazi mentali, per mancanza di oggettività.

Le verità predicate dalla politica, e non solo, sfacciatamente insulse e lungi dall’esser tali, aprono discussioni a non finire. Mancano agenti inibitori e gommoni di salvataggio per riportare briciole di rispondenze concrete, a galla. Sono i poteri forti a dominare la navigazione e a reggere il timone, quando i venti di forza contraria (Silenti astanti) sono di bonaccia.

L’uomo, coi suoi comportamenti e con la sua pomposa, spiccata oratoria, mantiene il suo teatro aperto a un pubblico, a volte obbediente e credulone altre volte intraprendente e sintetizzatore. Se il pezzo recitato non contiene sostanza sarà dimenticato: solo quello di sostanza avrà la forza di ripresentarsi, che l’attore sia lo stesso o facente parte di un cast diverso.

Il Concilio Tridentino, di cui Paolo Sarpi narra gli avvenimenti e la lungaggine per la sua conclusione, la dice lunga sul conto degli oratori protagonisti. È stato un dire e disdire, un fare e disfare, il proclamare e differenziare sentenze già acquisite per rinominarle soggettivamente ora dall’uno, ora dall’altro sceso in campo. Il sacro ne uscirà aggiustato alla maniera della corrente teologica in voga.

Ma ciò che è sacro può essere manomesso a piacimento oppure a utilità? Per dare un’impronta di buona lettura, in questi casi sembra sia possibile farlo. Ma è liceale l’impegno che taluni impresari della fede si arrogano, nella decisione? Non è una gestione facile comunque, anche in seno alla Chiesa stessa.

Il Concilio tridentino, come rimedio per sanare pratiche e comportamenti passati, sia del Papa, sia degli Imperatori, sia dei Regnanti in genere, sia dei vari dottoreggianti della fede, aveva messo gli uni di traverso agl’altri. La speciosità di alcuni temi affrontati, riguardanti l’evoluzione in meglio di alcuni principi e che ne affievoliva altri, ritenuti, dai bastian contrari, assai migliori, aveva aperto e chiuse istanze a non finire.

Era durato così a lungo Il Concilio di Trento che si svolse in tre momenti separati: dal 1545 al 1563 e durante le sue sessioni, sul soglio romano, si succedettero cinque papi (Paolo III, Giulio III, Marcello II, Paolo IV e Pio IV). Si produsse una serie di affermazioni a sostegno della dottrina cattolica che Lutero, e non solo, contestava.

Oggi, rimangono impresse le voci della storia, a volte mal custodite nella virtualità del pensiero da cui si possono attingere e non solo dai testi. Ma tra il detto e l’accaduto scorre un mare così denso e opaco in cui non è sempre accessibile il fondo di verità.

Chi scrive, si chiede a più riprese: “Fin dove arriva la credenza nei casi in cui la verità rimane come soggetto indefinito e a farne sostegno siano amputate stampelle, quali la speranza e l’aldilà?»,

La fede che rimane, non scalfibile, è quella dell’amore in Dio. Non deve mai mancare, l’uomo ne risulterebbe spoglio, nudo e disorientato.

Chissà che ne sarebbe stato se Gesù Cristo lo avessimo lasciato vivere oltre i trentatré anni…


Fontehttps://www.piqsels.com/it/public-domain-photo-jzcoe
Articolo precedenteUn venerdì solo
Articolo successivoL’ineffabile sapore della dignità
Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.