Il romanzo di Anna Giancontieri Mele, pubblicato da Pegasus Edition, candidato al Premio Campiello 2021
Salve, Anna. C’è qualche minimo sapore di dignità oggigiorno?
Sì, penso che ci sia e che ci sia sempre stato, poiché credo che la dignità sia un valore intrinseco dell’esistenza umana, che ogni uomo possiede e di cui non può non sentirne, prima o dopo, il sapore.
Potreste obiettare che troppo spesso, però, si assiste ad azioni di violenza, a lesioni perpetrate dall’uomo nei confronti di altri uomini, donne, bambini. Parlo della violenza dello stupro, della pedofilia, della corruzione, della mancata comprensione nei confronti dell’omosessualità, dell’handicap, del diverso; tutte crudeltà spregevoli che possono essere di natura fisica, psicologica, politica, culturale, economica, tutte racchiuse nell’ampio scenario dei rapporti umani e di cui l’uomo non dovrebbe mai macchiarsi,.
Non si può pensare, tuttavia, che ogni azione che scalfisca la dignità di una persona sia irreversibile, che non ci sia un momento per una via d’uscita per lui, una presa di coscienza, un pentimento, un desiderio di perdono che possano condurlo alla via della salvezza. Ed è proprio in quel preciso momento che bisogna aver fiducia, in quel momento in cui tale mutamento trova in lui piena consapevolezza, quella contezza che fa emergere forte l’intrinseca qualità della natura dell’uomo, quale essere ragionevole capace di auto-correggersi fino ad arrivare ad agire moralmente.
Qual è il fil rouge che unisce lo stereotipo esistenziale di Denise alla ribelle evasione di suo figlio Carlo?
La domanda contiene in sé una valutazione pregiudiziale che si rivela rigida nel momento in cui definisce Denise, il suo pensiero o il suo modus vivendi “stereotipato” e quello del figlio “ribelle”. In genere con il termine “stereotipo” si tende ad attribuire ad una determinata categoria di persone caratteristiche racchiuse in uno schema precostituito: non c’è considerazione alcuna delle probabili differenze tra i diversi componenti di tale categoria, né riflessione sulle caratteristiche del singolo caso che potrebbero essere, in realtà, solo “apparenti”, dettate probabilmente dalla necessità di adeguarsi ad una società piena di pregiudizi.
Quelle che connotano la posizione di Denise sono solo frutto di riflessioni prudenti, finalizzate ad evitare al figlio, non “ribelle” ma libero, una strada difficile e in salita, perché riconosciuta solo parzialmente dalla collettività.
Nel loro profondo, madre e figlio sono strettamente uniti da un’educazione similare, fondata sul rispetto dell’”altro”, chiunque esso sia. La lettura attenta del romanzo (che non si limiti alla prima parte) ne dà chiara testimonianza.
L’utilizzo di Internet, con i social, è la prima valvola di sfogo dell’appiattimento coniugale e del conseguente tradimento?
La rete internet viene considerata dagli studiosi uno dei possibili luoghi in cui spesso gli individui si incontrano anche perché favorisce l’accesso ad un numero alto di potenziali partner, in modo veloce e comodo. Da dati statistici ISTAT, non molto recenti, emerge che le unioni libere (senza vincolo matrimoniale), nate da tali incontri, risultano al 5° posto delle 15 possibilità prese in esame.
Che alcuni abbiano cercato sfogo alla solitudine o all’appiattimento coniugale su internet per pigrizia, comodità, curiosità, si sente dire abbastanza nelle varie trasmissioni televisive anche perché si vogliono mettere in evidenza le conclusioni spesso pericolose di tale tipologia di incontri.
Ma non è questo il caso di Denise. Il fatto che nel romanzo si parli di una corrispondenza epistolare su Internet, che poi ha portato al tradimento (se tale può essere considerata la relazione fra Denise e Leonardo), non vuole assolutamente significare che quella su web sia la prima valvola di sfogo dell’appiattimento coniugale. Ciò anche perché Denise non è andata in cerca di qualcuno con il preciso scopo di trovarlo sulla rete. Il caso ha favorito quella conoscenza, nata inizialmente solo telefonicamente, e proseguita, poi, con invii epistolari sulla rete anche per sfuggire all’atmosfera pesante creatasi in famiglia a seguito del distacco del figlio maggiore.
L’atavica omofobia di certi genitori può dipendere da una mancata cultura sociologica familiare?
La risposta a tale domanda è sì. L’opinione comune tende a considerare l’omosessualità non come uno degli orientamenti sessuali già riconosciuti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ma ancora come una condizione patologica, malata se non addirittura perversa. Da lì l’atteggiamento di ostilità, rifiuto nei confronti degli omosessuali sulla base dello specifico convincimento culturale che vede nell’eterosessualità l’unica, legittima espressione dell’orientamento sessuale.
Scardinare tale convincimento, su tutto ciò che non si conforma alle aspettative culturali della società, significherebbe minare alla base le radici dell’omofobia istituzionalizzata, cioè di tutte quelle azioni anti-omosessuali, chiara espressione di quel complesso di pregiudizi che ancora oggi alberga nella maggioranza delle famiglie. E ciò è compito difficile anche se fortemente auspicabile se la nostra società vuole veramente fare un passo avanti, rispettoso dei diritti di ciascuno e comprensivo nei confronti di legittime aspettative.