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Forse sì, forse no, forse non sempre…

Noi dovremmo seriamente reimparare le parole. Le usiamo male, malissimo. Me l’ha detto un cespuglio di lavanda l’altro giorno. Abbracciava un ciuffo di margherite selvatiche: era uno spettacolo disordinato solo in apparenza; aveva una sua personalissima logica, che innervava di positività l’inizio di una giornata. E così ho pensato che la spontaneità è una cosa meravigliosa, perché è diversa dal semplicismo, dall’ingenuità, dalla mancanza di profondità, di un progetto, di un valore, di un ideale. Tutte cose che spaventano. Tutte cose trattate come opposte alla spontaneità stessa, a sua volta scambiata per la via di fuga dalla responsabilità.

Quando racconti i tuoi progetti agli altri, c’è sempre qualcuno che ha paura. E che quindi evita l’argomento, oppure manifesta palese imbarazzo se sei tu a tirarlo fuori. E, se proprio non può tirarsi fuori dal discorso, si inerpica nei sofismi più svariati per tenere buono il proprio terrore dell’adultità, delle scelte mature, e per convincere te che stai sbagliando. Perché, in fondo, che bisogno c’è di andare a lavorare lontano, di darsi così tanto da fare, di fare programmi? Ma soprattutto…perché sposarsi, quando si può vivere l’amore in libertà e spontaneità?

Peccato che questa parola meravigliosa, di echi latini, racconti di una volontà di fare qualcosa, dunque di una decisione, di un passo, di un agire concreto e responsabile. Spontaneo deriva da “spons”, la libera volontà che “spinge” a far qualcosa. E tra spontaneo e sponsale la familiarità è presto detta.

Così, gli sposi non sono più utopisti un po’ all’antica, cultori antiquati di cose passate, bensì della spontaneità, ossia della libera volontà di assumersi pubblicamente un impegno, di farsi carico di un progetto davanti a diversi testimoni. E sia chiaro: non si tratta di fare l’apologia del matrimonio in sé. Non ce n’è bisogno, soprattutto in questi tempi difficili, nei quali certe parole sono terreno di fraintendimenti e di proliferazione dei tradizionalismi più beceri. Si tratta di evitare di associare qualsiasi scelta, vera e sentita, d’amore al pericolo di perdere libertà e spontaneità.

Insomma, la mia è una critica allo spontaneismo come mentalità di chi non ha mai pace, dunque si sente disturbato dalla serenità altrui; di chi non conosce l’amore, dunque cerca di addomesticare quello degli altri; di chi non cresce mai, non sceglie mai, perché in fondo sta comodo, ma in-vidia le scelte adulte e le distorce con ragionamenti semplicistici e con un impressionante abuso di parole. Ma, soprattutto, la mia è una condivisione stupita dell’ennesimo tesoro dell’etimologia, inaspettatamente ricevuto da un abbraccio di lavanda e margherite. Se non altro, abbiamo la dimostrazione che le cose più spontanee sono anche le più serie. Non severe, ma serie, profonde, pensate e in grado di aprire il pensiero, di illuminare le azioni, di sfidare i soliti, devastanti luoghi comuni.

Certo, a far pensare è soprattutto la netta sensazione di essere interpretati e accompagnati dai fiori molto meglio che dalle persone. Non sempre, ma spesso.