
Eugenio Montale, da “Dal male di vivere” a Facebook
Questa poesia di Montale è una delle più felici ed esplicative espressioni della sua concezione esistenziale; tratta il male di vivere, un tema che tanto caro fu al Leopardi e si ispira al verso 104 del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “(…) a me la vita è male”.
Montale replicò immediatamente a coloro i quali vollero paragonarlo al titano di Recanati, infatti asserì testualmente: “Lascio poco da ardere, è già tanto vivere in percentuale!”.
La lirica fa parte della raccolta Ossi di Seppia, colonna portante della sua poetica ed è divisa in due parti, che rappresentano due diversi momenti di riflessione del poeta.
La prima è incentrata sul malessere esistenziale, che si ravvisa nelle situazioni quotidiane; il senso di fatica e quello di dolore sono espressi in modo magistrale da Montale. Parole ripetute costantemente non fanno altro che accentuare ancor di più l’asprezza del pensiero, si riscontra un crudele e tragico susseguirsi delle cose e degli eventi.
Montale trae esempi dalla realtà naturale, dal regno inanimato, da quello animale e da quello vegetale. Il rivo, la foglia, il cavallo sono attimi di precarietà e dolore, sottolineati dagli aggettivi ad essi collegati: strozzato, riarsa, stramazzato. Il ruscello è impedito nello scorrere, la foglia è accartocciata, il cavallo è ormai stroncato dalla fatica.
È questa la triste constatazione che gli aspetti più modesti e quotidiani rivelano un pianto delle cose che testimonia un cosmico male di vivere e un’uguale sofferenza degli uomini.
Viene cosi rappresentato il “correlativo oggettivo” usato da Montale con un’eccellente maestria, che lo discosta parecchio dal concetto di T. S. Eliot il quale affermava, in buona sostanza, che l’esistenza stessa di un’emozione nasce da “correlativi predeterminati”, siano essi acqua o terra.
In Montale il “correlativo oggettivo” assume le vesti di mantello sul verso poetico,non viene esplicitato in maniera evidente in termini ed il poeta lascia al lettore la soggettiva sensazione delle parole stesse, in un linguaggio più universale.
Nella seconda quartina, in opposizione al male di vivere, Montale afferma che l’unico bene per l’uomo consiste nell’atteggiamento di indifferenza per tutto ciò che è segnato dal male e dal dolore.
Ai tre emblemi del male si contrappongono tre esempi concreti (correlativi oggettivi) di questa specie di bene: la statua, la nuvola, il falco.
La statua si caratterizza per la sua fredda e marmorea insensibilità; la nuvolae il falco, invece, si levano alti al di sopra della miseria del mondo. Ecco la lirica ai giorni nostri.
I social network hanno favorito in maniera rapida un passaggio importante, fatto di tanti egosfaccettati, costruiti, apparenti e superficiali, in cui le persone sono e si sentono iper-connesse ma, in definitiva, sole: tutto fa pensare che l’uomo di oggi sia più che mai un estraneo vivente tra estranei e che l’apparente comunicazione della vita odierna – una comunicazione che non ha precedenti – avvenga non tra uomini veri ma tra i loro duplicati.
Quasi dei replicanti insomma, a cui si aggiunge un ulteriore scenario del pensiero, che guarda alle macchine ed alla loro possibile interazione con l’essere umano.
È attuale, ad esempio, l’idea sul transumanesimo, quel movimento sociale alla base del quale si prospetta che la tecnologia allontanerà i confini della condizione umana, spostando l’asticella, in una possibile fusione tra uomo e macchina. La fabbrica delle macchine non ha nulla di diabolico. (…). In sé la macchina è neutrale, è un prolungamento della mano dell’uomo e nulla più. (…). Il nostro debito verso le macchine è immenso. Ce ne accorgiamo solo quando vengono a mancare.
A proposito di ciò, Montale è un poeta, un uomo di pensiero: sa che il desiderio, insieme all’esigenza di macchine sempre più efficienti e numerose porteranno a cambiare inevitabilmente l’utilizzo del tempo.
Non la quantità, ma la qualità e l’uso che ne se farà, in una società sempre più ossessionata dalla sua mancanza e da quella dello spazio per relazioni umane vere, concrete.
Un giorno, si dice, l’uomo potrà lavorare tre o quattro ore dedicando le ore libere a un numero praticamente infinito di ozi e di passatempi. Ma già si profila il problema che un’immensa orda di uomini obbligati al divertimento per dovere sociale non diventi un immenso semenzaio di nuovi arrabbiati.
Non a caso, in occasione di una colazione in una trattoria ai Vecchi Navigli di Milano il poeta, chiacchierando con i commensali, affermò di non possedere la televisione: mi sono difeso per molti anni, disse.
Ironia della sorte, proprio un apparecchio televisivo gli fu dato in dono da un comitato locale di consulenti per la TV e Montale replicò ironicamente dicendo che ascoltava raramente la radio e non guardava affatto la televisione, lasciando commensali ed intervistatori con questa frase di commiato: “Vedrò se potrò conciliarmi con questo mezzo di trasmissione di notizie, di messaggi, devo dire però che è una forma di distrazione della vita privata, oggi la vita privata non esiste quasi più”. Correva il 1966.
Michele Ruta